Dopo un braccio di ferro durato settimane, culminato con la minaccia di uno sciopero di 24 ore, il sindacato tedesco Ig Metall ha raggiunto un accordo con le aziende del Land del Baden-Wuerttenberg, che prevede la riduzione da 35 a 28 ore di lavoro settimanali per chi dovrà assistere parenti anziani e bambini piccoli.
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Il cambiamento di condizioni riguarda circa 900mila lavoratori della regione di Stoccarda, i quali potranno richiedere di usufruire della settimana corta, per un periodo compreso tra i 6 mesi e i 2 anni, anche per più volte nel corso del periodo lavorativo.
Il patto prevede un taglio proporzionale del salario per chi vorrà usufruire di questa facoltà, attenuato da otto giorni in più di ferie pagate.
Per tutti, invece, è stato inserito un aumento della busta paga pari al 4,3 per cento.
C’è anche però chi potrà lavorare di più, in quanto si potrà ottenere dalle aziende di estendere la propria settimana lavorativa da 35 a 40 ore.
“L’accordo è una pietra miliare per il mondo del lavoro. La flessibilità non sarà più un privilegio del datore”, ha dichiarato il presidente di Ig Metall, Jörg Hofmann.
Adesso si attende che il cambiamento sia esteso a tutti i lavoratori della Germania che aderiscono al sindacato, che raccoglie circa 3,9 milioni di lavoratori del comparto metallurgico.
Cosa prevede, invece, la legislazione dell’Italia e degli altri paesi dell’Unione europea in tema di settimana lavorativa?
Nel rispetto della direttiva 88 del 2003, in tutti i paesi dell’Ue “la durata media dell’orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni non deve superare le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario”
In Spagna si lavora generalmente per 8 ore al giorno 5 giorni alla settimana, ma in alcuni casi si arriva a raggiungere le 48 ore nell’arco dei sette giorni.
In Francia, nel 2002 è entrata in vigore una legge che ha imposto alle aziende il passaggio da 39 a 35 ore di lavoro settimanale.
Dopo molti tentativi di riforma, tutti falliti, l’attuale presidente Emmanuel Macron ha intenzione di superare la riforma dell’allora governo socialista guidato da Jospin.
Macron vuole infatti aggirare il vincolo delle 35 ore, considerato “sacro” dai francesi, attraverso la detassazione delle ore di straordinario per le aziende, oggi calcolata in un’aliquota del 25 per cento.
Nei paesi scandinavi la situazione è differente.
Nella capitale danese Copenhagen è al vaglio un progetto che prevede l’abbassamento dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali per i dipendenti comunali.
In Svezia il comune di Goteborg ha testato il modello delle 6 ore di lavoro giornaliere, che ha portato da una parte l’aumento dei costi salariali dovuto alla necessità di assumere nuovi lavoratori, dall’altra un miglioramento delle condizioni di vita dei dipendenti, un numero minore di assenze per malattia e una maggiore assistenza ai lavoratori in situazione di difficoltà.
Da poco uscita dall’Unione europea, la Gran Bretagna prevede orari differenti a seconda della categoria di lavoratori.
Si oscilla infatti da un totale di 38 ore di lavoro a settimana, fino a un tetto massimo di 48.
In Italia l’orario di lavoro “standard” è di 40 ore settimanali, anche se esistono alcune categorie contrattuali che ne prevedono 36.
La legge 104 del 1992 ha previsto la facoltà, per chi ha genitori o figli malati, di disporre di 3 giorni di permesso retribuito al mese.
Il decreto legislativo 66 del 2003, in attuazione delle Direttive dell’allora Comunità europea n. 104 del 1993 e n. 34 del 2000, ha modificato la precedente normativa che risaliva addirittura ad un regio decreto del 1923, apportando significativi cambiamenti.
In particolare, è stato abrogato ogni limite alle ore di straordinario giornaliero, settimanale e annuale.
La norma ha poi introdotto il concetto di “orario medio”, in base al quale il datore di lavoro deve pagare la maggiorazione per il lavoro straordinario solo oltre un certo monte ore per periodo, introducendo per la prima volta il concetto di pausa giornaliera.
In questo periodo di campagna elettorale il tema dell’orario di lavoro settimanale sembra avere un ruolo a dir poco residuale nei dibattiti e nei programmi elettorali dei vari partiti.