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    Da Gaza a Taiwan, Francesco Maringiò a TPI: “Vi spiego com’è il mondo visto dalla Cina”

    Credit: AP Photo

    “Su Ucraina e Medio Oriente la posizione del Pcc è la stessa. Il dialogo tra Biden e Xi è positivo. Ma escludere la Cina da progetti scientifici e tecnologici può essere un errore”. L’esperto Francesco Maringiò spiega a TPI le strategie e le prossime mosse del Dragone

    Di Niccolò Di Francesco
    Pubblicato il 14 Giu. 2024 alle 16:36

    Nel complicato scenario geopolitico c’è un attore che spesso noi occidentali facciamo fatica a comprendere a pieno: si tratta della Cina. Che ruolo può giocare Pechino in Medio Oriente e in Ucraina? E ancora: quali sono gli obiettivi e le ambizioni della Cina? Taiwan rischia di essere veramente teatro di una nuova guerra? The Post Internazionale (TPI) ha posto queste ed altre domande a Francesco Maringiò, giornalista e consulente aziendale nonché esperto del mercato cinese e studioso della Cina contemporanea, che ci ha aiutato a comprendere meglio sia ciò che accade in Cina dal punto di vista economico e politico, ma anche ad analizzare quelle che sono le strategie cinesi alla luce non solo dei conflitti in corso ma anche delle prossime elezioni presidenziali statunitensi.

    Che momento sta vivendo la Cina dal punto di vista economico e politico di fronte a una ripresa economica ancora precaria, e soprattutto a una crisi immobiliare che non dà segni di arretrare. Le previsioni economiche di Pechino stimano una crescita del PIL intorno al 5% come l’anno scorso. Quale sarà l’effettivo scenario?
    «Personalmente ho sempre in mente un articolo del “New York Times” dal titolo “The Land That Failed to Fail” in cui si sottolineava per l’appunto come il vero fallimento fosse stato quello di non fallire nonostante le previsioni catastrofiste dell’epoca. Diverse volte ci sono stati dei momenti nella storia della Cina post 1949 durante i quali c’erano dei cambiamenti strutturali dell’economia che però sono sempre stati superati malgrado le analisi più catastrofiste che si sono sempre rivelate sbagliate. Di fronte alla situazione attuale c’è ovviamente una rimodulazione del modello economico e fino ad ora gli economisti cinesi escludono la pista per così dire catastrofista. Anche di fronte a un mercato immobiliare che per una lunga fase ha trainato il Pil soprattutto delle economie delle province, e che oggi è entrato in una fase completamente diversa, noto un certo ottimismo sul fatto di poter controllare la situazione. Fino ad oggi la Cina ha avuto 45 anni di sviluppo ininterrotto senza una vera crisi finanziaria e sta per diventare un Paese ad alto reddito. E anche le previsioni economiche per quest’anno non sono negative: se tutte le previsioni, incluse quelle del Fondo Monetario Internazionale che prevedono una crescita del 5%, si riveleranno esatte, la Cina contribuirà al 30% del Pil mondiale. Paragonando l’economia cinese allo stato di salute mondiale tutto sommato non si intravedono scenari catastrofici. Questo non significa che non vi sia comunque una necessità di un cambio di un modello economico».

    Come si pone la Cina nello scenario attuale, ovvero quello che vede attualmente due guerre in corso, in Ucraina e a Gaza?
    «Su Gaza c’è un passaggio che a mio avviso chiarisce perfettamente il punto di vista cinese. Mi riferisco alla risoluzione che gli Usa hanno presentato all’Onu il 22 marzo scorso e che ha visto il veto della Cina e della Russia. L’ambasciatore cinese all’Onu in quell’occasione ha chiarito che il punto di partenza di ogni risoluzione Onu che possa permettere di fare un passo in avanti è che ci sia un esplicito riferimento a quello che lui ha chiamato un cessate il fuoco “immediato, incondizionato e duraturo”. Sulla crisi mediorientale è evidente che il punto di partenza di Pechino è quello di arrivare nel più breve tempo possibile al cessate il fuoco. La Cina sostiene, come noto, la creazione di uno stato palestinese e quindi considera la soluzione dei due stati come una soluzione che possa portare alla pace e a un equilibrio nella regione, ma il primo punto fondamentale è quello del cessate il fuoco. Che è stato un tratto comune anche nella crisi ucraina, anche se qui ovviamente la situazione è un po’ diversa. La Cina ha nominato un proprio rappresentante per tentare se non una mediazione perlomeno un dialogo con entrambe le parti. Di fronte a queste crisi l’atteggiamento della Cina è sempre lo stesso: ovvero preservare il ruolo delle Nazioni Unite che devono svolgere un ruolo di mediazione. In Europa abbiamo fatto più fatica a comprendere la posizione cinese sulla vicenda ucraina però le posizioni della Cina sono le medesime in entrambi i conflitti attualmente in corso».

    Dopo lo scontro tra Israele e Iran, alla Cina è stato chiesto di mediare con Teheran. Che ruolo può giocare Pechino in Medio Oriente e quali sono i suoi interessi nella regione?
    «I rapporti tra Cina e paesi del Medio Oriente e Nord Africa (Mena) hanno subito un notevole sviluppo dall’inizio degli anni 2000. Da allora la Cina è diventata il principale partner commerciale di diversi paesi della regione e dall’area Mena importa metà del suo fabbisogno petrolifero. Come nel caso del conflitto ucraino dove i paesi occidentali chiedono alla Cina di fare pressioni sulla Russia per giungere ad un determinato obiettivo strategico, così nel caso della crisi tra Iran e Israele ci si chiede che pressioni possa fare Pechino su Teheran. Ma la classe dirigente cinese non ragiona in questo modo. Il 10 marzo 2023, con grande sorpresa della comunità internazionale, la Cina ha mediato sull’accordo di riconciliazione tra Arabia Saudita ed Iran, che riprendevano le relazioni diplomatiche interrotte nel 2016. Ciò è stato possibile per una politica cinese di neutralità rispetto alle dispute regionali, alla forte cooperazione economica con tutte le parti ed una prospettiva politica che non era basata sulle pressioni su una parte, in favore di una certa soluzione. Tutto questo ha permesso di raggiungere un successo che è un fattore stabilizzante per la regione, con conseguenze dirette sulla vicenda yemenita e siriana, per esempio. È questo il modus operandi preferito da Pechino. Che non a caso appoggia l’ingresso dell’Arabia Saudita nello Shanghai Cooperation Organization (dove c’è già l’Iran) ed all’interno del quale ci sono paesi con rivalità e dispute di confine come India e Pakistan. Proprio la vicenda del Medio Oriente ci permette di comprendere meglio come lavori la Cina sullo scacchiere mondiale».

    Quali sono le ambizioni di Pechino per un nuovo ordine mondiale e gli obiettivi che la Cina si pone nell’attuale contesto geopolitico?
    «Nelle posizioni ufficiali le posizioni della Cina sono quelle precedentemente elencate, ovvero la centralità dell’Onu e quindi il rilancio delle Nazioni Unite e anche di tutti gli organismi multilaterali. Personalmente ritengo che un’ambizione della Cina potrebbe essere quella di una democratizzazione di alcune strutture o soprattutto di alcuni meccanismi. Il mondo che immagina Pechino non prevede la possibilità di finire unilateralmente per decisione americana sotto sanzione. L’idea che si possa essere estromessi dai sistemi di pagamento internazionale o che l’unica moneta per le transazioni commerciali globali, così come accaduto per lungo tempo, sia semplicemente il dollaro è evidente che venga considerata come qualcosa di ingiusto per i cinesi che ambiscono appunto a cambiare questi aspetti. Quindi non cambiare una gerarchia, cioè non passare da un unitarismo sotto una bandiera a un altro sotto una diversa bandiera, ma semplicemente costruire dei rapporti diversi, che sono poi quelli che hanno permesso per lungo tempo anche alla Cina di crescere economicamente».

    Taiwan rischia di essere teatro di una nuova guerra?
    «Si tratta ovviamente di un punto nevralgico non solo per i rapporti tra Taipei e Pechino ma è un punto nevralgico della politica mondiale. Il punto di vista cinese è noto: Pechino rappresenta tutto il popolo cinese. Da questo punto di vista i cinesi non intendono arretrare né aprire al fianco ad alcun tentativo o spinta di tipo secessionista. Questo, a mio avviso, è il filo rosso, che non a caso è emerso anche nel recente dialogo tra Xi Jinping e Biden. Qualsiasi tipo di politica o di iniziativa nella direzione dell’indipendenza di Taiwan può portare a una escalation e quindi a uno scenario che ovviamente non vorremmo vedere. Se, invece, non ci sono spinte in senso secessionista allora ritengo che la situazione possa essere in qualche modo gestibile. Tutto sta nel capire se c’è la volontà o l’intenzione di superare questa linea rossa».

    Come sono i rapporti tra Usa e Cina allo stato attuale alla luce del recente viaggio di Blinken a Pechino e della telefonata tra Biden e Xi il cui comunicato ufficiale parla di “due Paesi che dovrebbero rispettarsi a vicenda, coesistere in pace e perseguire la cooperazione vantaggiosa per tutti”.
    «La telefonata tra i due presidenti consolida quello che è successo con il vertice di San Francisco del novembre 2023, ovvero quando Xi Jinping si è recato negli Usa. C’è un tentativo, anche da parte dell’amministrazione Biden, di tenere il rapporto con la Cina su un piano di comunicazione continua dopo la rottura che si era consumata in particolar modo dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan. La telefonata tra Biden e Xi Jinping ha preparato il terreno a una serie di incontri ad alto livello, non ultimo quello tra il segretario di Stato americano Antony Blinken e il presidente cinese. Il rovescio della medaglia è che Biden ha ribadito, ancora una volta, le restrizioni all’export di materiale tecnologico. È chiaro che questa decisione viene valutata in maniera negativa dalla Cina. Personalmente ritengo che questo sia un errore perché abbiamo imparato che tutte le volte che i cinesi sono stati estromessi da progetti scientifici o tecnologici, poi loro hanno perseguito una loro strada di modernizzazione. Basti pensare alla questione delle missioni spaziali. La Cina è stata completamente esclusa e il risultato è che oggi ci sono esplorazioni spaziali e tecnologie, di cui noi sappiamo relativamente poco perché i cinesi se li sono sviluppati da soli. Questo è un errore anche negli interessi dell’Occidente».

    A pochi mesi dalle elezioni presidenziali Usa per chi “fa il tifo” la Cina tra Biden e Trump e perché.
    «La Cina spesso pensa alle elezioni americane come a una disputa tra partiti e candidati che sono alternativi ma non nelle posizioni sulla Cina. È difficile che facciano veramente il tifo per uno rispetto all’altro. Personalmente ritengo che la già citata telefonata tra Biden e Xi Jinping è comunque un segnale positivo se pensiamo che l’amministrazione Biden, una volta eletta, pur non avendo utilizzato gli stessi argomenti di Trump contro la Cina, ha comunque mantenuto in piedi la cosiddetta guerra tecnologica e commerciale impostata da Trump aggiungendo in più tutta la campagna sui diritti umani. Dal punto di vista cinese, il periodo della campagna elettorale americana generalmente è il periodo peggiore nei rapporti con gli Usa perché spesso la Cina diventa uno dei terreni di scontro. Quello che c’è veramente da augurarsi è che la nuova amministrazione, qualunque essa sia, riesca a costruire un dialogo perlomeno capace di delimitare i punti in cui i due Paesi sono d’accordo e quelli in cui evidentemente possono esserci delle distanze perché questo aiuta anche noi europei a poter giocare la nostra partita nel rapporto con la Cina».

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