Fare di un vertice di guerra un vertice di pace: è la missione, anzi la speranza, che i Sette Grandi affidano all’Italia e alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni che nel 2024, a giugno, in Puglia, organizzerà e ospiterà il prossimo G7.
Vertice di guerra è stato quello di Hiroshima in Giappone una settimana fa, dal 19 al 21 maggio, più di quanto lo era stato l’anno scorso quello in Germania, allo Schloss Elmau, in Alta Baviera, quando l’invasione era fresca di tre mesi. Due i motivi: uno, l’incontro di Hiroshima è stato caratterizzato dalla presenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky; due, lì s’è aperto un fronte di scontro parallelo, già latente, ma ora dichiarato, con la Cina.
L’Italia saprà fare del G7 un’occasione di pace, una festa? Difficile dirlo; e, comunque, non è certo una responsabilità o una scelta solo sua. È una responsabilità collettiva di tutto l’Occidente. E pure dei principali interlocutori, che oggi sono percepiti e si comportano come avversari. Sul percorso del successo del vertice, Meloni deve scavalcare o eludere tre ostacoli: due globali e comuni a tutti i Grandi, il conflitto in Ucraina e il confronto con Pechino; e uno specifico italiano, la decisione se continuare a essere parte della Nuova Via della Seta con la Cina o uscirne.
Le reazioni a caldo di Pechino e Mosca alle conclusioni di Hiroshima non sono positive. I cinesi giudicano un’ingerenza nei loro affari interni gli allarmi per la sorte di Taiwan e per le loro «attività di militarizzazione» intorno all’isola e in generale nel Pacifico. Mosca ritiene che la partecipazione di Zelensky abbia ridotto il G7 a «uno show propagandistico».
Se il leader ucraino si presenta ai Grandi dicendo «oggi la pace sarà più vicina», il vice-ministro degli Esteri russo, Alexander Grushko, avverte: «Se daranno a Kiev gli F-16, i Paesi occidentali corrono rischi colossali». L’ennesima obliqua minaccia russa di ricorso all’arma nucleare, proprio quando l’Orologio dell’Apocalisse mostra che l’umanità è a soli 90 secondi dalla catastrofe atomica, mai più vicina dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
A sottolineare il clima di confronto aperto tra l’Occidente e i fautori di un nuovo ordine mondiale alternativo, il vertice di Hiroshima s’è svolto quasi in contemporanea a quello di Xi’an, la città dell’Esercito dei guerrieri di terracotta, tra la Cina e cinque repubbliche ex Urss dell’Asia centrale, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. Una formazione inedita, una sorta di contro-vertice che iscrive nella serie di quelli recenti della “Organizzazione per la cooperazione” di Shanghai, la Sco, e dei Brics, tutti volti a definire una nuova governance internazionale.
Con una variante intrigante. A Hiroshima c’era Zelensky, che ha ritrovato libertà di movimento: dopo essere stato per oltre un anno un ospite virtuale, ora fa missioni fuori dall’Ucraina senza remore e, sulla via del G7, è anche andato al Vertice della Lega araba; sono segnali di fiducia, mandati ai suoi alleati e al proprio popolo. A Xi’an non c’era il presidente russo Vladimir Putin, che dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina ha lasciato la Russia in rarissime occasioni. Ma c’è pure chi legge l’assenza di Putin in funzione del desiderio delle repubbliche ex Urss dell’Asia centrale d’avvicinarsi alla Cina prendendo le distanze dalla Russia, che rischia di essere un partner scomodo.
Il mantra del nuovo ordine mondiale era passato, nel settembre scorso, attraverso il secondo vertice della Sco, svoltosi a Samarcanda in Uzbekistan, presenti lì Putin e anche India e Pakistan, oltre che fra gli osservatori l’Iran e fra gli invitati la Turchia, che, un po’ per vocazione e per geografia, ma anche un po’ per il ruolo di mediatore che s’è ritagliata nel conflitto ucraino, è sempre e dappertutto. Il prossimo vertice della Sco sarà in India, Paese che già gestisce la presidenza di turno del G20 e che era pure presente come invitato a Hiroshima. Come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, anche il premier indiano Narendra Modi ha una diplomazia articolata dalle molteplici sfaccettature.
Nel filone della ricerca di alternative diplomatiche alla governance mondiale a trazione occidentale, ci sono anche i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e SudAfrica), che l’anno scorso, riuniti a Pechino, avevano in agenda la riforma della governance globale, l’elaborazione di un sistema di pagamento alternativo allo Swift, la creazione di una nuova valuta di riferimento internazionale. Quest’anno, l’appuntamento è in Sud Africa: la presenza di Putin è in discussione, perché il Paese riconosce la Corte penale internazionale e potrebbe quindi avvertire l’obbligo di rispettare l’ordine di cattura emesso dall’Aja nei confronti del leader russo.
A Xi’an, il presidente cinese Xi Jinping ha sollecitato il suo Paese e l’Asia Centrale a utilizzare tutto il loro potenziale nella cooperazione commerciale, economica e infrastrutturale; e ha detto che tutte le parti devono «liberare completamente il potenziale della cooperazione tradizionale in economia, commercio, industria, energia e trasporti». L’obiettivo di Xi Jinping è espandersi in Asia centrale, regione in linea di massima posta sotto l’egida russa, “sfruttando” l’impatto della guerra in Ucraina: le economie di quei Paesi, infatti, stentano e il presidente cinese si presenta loro come un salvatore. Per la Cina l’incontro di Xi’an «è stata la prima grande attività diplomatica» del 2023 e l’occasione per abbozzare nuovi disegni, senza trascurare la Via della Seta e le sue implicazioni economiche e commerciali.
Xi ha inoltre sottolineato la necessità di sviluppare «nuovi motori di crescita», citando tra le opzioni «la finanza, l’agricoltura, la riduzione della povertà, le basse emissioni di carbonio, la salute e l’innovazione digitale». La Cina e i Paesi dell’Asia centrale «devono approfondire la fiducia reciproca e strategica, offrirsi sempre un sostegno chiaro e forte l’uno all’altro su questioni d’interesse fondamentale» e lavorare per «sostenere un’amicizia eterna», formula che ai cinesi piace molto: la usano anche nei confronti della Russia.
La Cina accoglie con favore «la partecipazione dei Paesi dell’Asia Centrale a piani di cooperazione speciali nell’ambito della nuova Via della Seta, comprese le tecnologie di sviluppo sostenibile, l’innovazione, l’imprenditorialità e lo spazio». E Xi vede la opportunità d’espandere la cooperazione in materia di sicurezza su quelli che Pechino usa definire come i «tre mali» di cui soffre la regione: separatismo, terrorismo ed estremismo.
E qui fischiano le orecchie all’Occidente e a Taiwan (e pure a Kiev). I sei Paesi dovrebbero, inoltre, «opporsi risolutamente all’interferenza esterna negli affari interni dei Paesi regionali e ai tentativi d’istigare “rivoluzioni colorate”», afferma Xi, che cita i disordini negli Stati dell’ex Urss, che Mosca afferma siano sostenuti dall’Occidente, ma che ha anche in mente Taiwan e gli incontri ravvicinati tra Usa e Cina nel Mar cinese meridionale.
Proprio la nuova Via della Seta è un paletto che l’Italia deve dribblare sulla via del G7 in Puglia. Nel 2019, il Governo Conte 1 (M5S-Lega) portò l’Italia dentro il percorso della Belt & Road Initiative, il massiccio piano di investimenti esteri grazie al quale il Dragone è divenuto il primo creditore estero dei Paesi africani e del Sud del Mondo (superando il Club di Parigi) e ha intensificato gli scambi commerciali con l’Occidente, nonostante l’andamento altalenante delle relazioni politiche e di sicurezza.
Settimane fa, incontrando lo speaker repubblicano della Camera Usa Kevin McCarthy, Meloni aveva espresso la volontà del suo governo di uscire dal memorandum con Pechino – la disdetta, se ci sarà, va data entro l’autunno. L’eventualità è stata ventilata, nei giorni successivi, dai ministri degli Esteri, Antonio Tajani, e dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Per Meloni, che ha poi chiarito che nessuna decisione è stata ancora presa perché la questione è delicata, la marcia indietro sarebbe un altro modo di ribadire la linea dell’atlantismo ferreo del suo governo: non c’è, infatti, dubbio – e a Hiroshima se n’è avuta conferma – che Washington apprezzerebbe che Roma si defilasse.
Però, i timori di contraccolpi economici sono forti. E quale sia l’interesse prevalente per l’Italia non è chiaro: Meloni ha qualche mese per pensarci.