Ogni volta ci colgono di sorpresa, ma è dall’«estate calda» del 1981 che gli scontri in Francia si ripetono seguendo sempre lo stesso schema: un giovane viene ucciso o gravemente ferito dalla polizia, scoppiano le violenze nel quartiere interessato, nei sobborghi limitrofi, quindi in tutti i quartieri «difficili», talvolta – come nella rivolta delle banlieues del 2005 o in quelle di oggi – che si sentono vittime delle violenze della polizia.
Da ormai quarant’anni a dominare le rivolte urbane è la rabbia dei giovani che attaccano i simboli dell’ordine e dello Stato, i municipi, i centri sociali, le scuole, fino alle attività commerciali.
Vuoto istituzionale
L’odio verso le autorità porta i ragazzi a distruggere i propri quartieri sotto gli occhi degli abitanti che condannano le loro azioni, ma al tempo stesso le «comprendono» sentendosi dunque impotenti.
Ad ogni modo a emergere è soprattutto un vuoto istituzionale e politico, nella misura in cui i politici locali, gli amministratori, le associazioni, le chiese e le moschee, gli assistenti sociali e gli insegnanti ammettono la loro impotenza e non riescono a far sentire la loro voce.
Solo dopo le rivolte di Minguettes nel 1981 venne organizzata una grande manifestazione per la legalità contro il razzismo, ma in seguito da questa rabbia non è più nato alcun movimento.
In fondo, comunque la si voglia interpretare, ognuno continua a recitare la propria parte: la destra denuncia le violenze e stigmatizza i quartieri e le vittime della polizia; la sinistra denuncia le ingiustizie e promette nuove politiche sociali. Nicolas Sarkozy si schierò con la polizia nel 2005, Macron ha manifestato la sua compassione verso Nahel, il giovane ucciso da un agente a Nanterre, ma vale la pena sottolineare che le figure politiche e i presidenti sono personaggi poco ascoltati nei quartieri in questione.
Poi tutto ritorna al silenzio, fino alla prossima occasione in cui scopriremo di nuovo i problemi delle banlieues e l’uso della violenza da parte della polizia.
Lezioni da imparare
Il ripetersi delle rivolte urbane e dei conseguenti scenari dovrebbe portarci a imparare alcune lezioni relativamente semplici.
Anzitutto che le politiche urbane mancano i propri obiettivi. In 40 anni gli sforzi per migliorare le condizioni delle abitazioni e dei servizi ai cittadini di questi quartieri sono stati notevoli. La qualità degli appartamenti è migliorata, ci sono centri sociali, scuole, università, linee dell’autobus, sarebbe errato affermare che queste zone sono state abbandonate.
Nonostante questi interventi però, la diversità sociale e culturale delle banlieues è andata degradandosi. Il più delle volte infatti gli abitanti sono poveri, precari, immigrati o provenienti da ondate migratorie successive.
Ma soprattutto, quelli che «se ne vanno» e abbandonano il quartiere vengono rimpiazzati da abitanti ancora più poveri e provenienti da luoghi ancora più lontani. Gli edifici migliorano ma la situazione sociale si deteriora.
Suscita disgusto parlare di ghetti, ma il processo sociale in corso è proprio quello di una ghettizzazione, di una scissione crescente dentro i quartieri e al loro ambiente, di una comunità imposta dall’esterno che si rafforza dall’interno. Le persone frequentano le stesse scuole, gli stessi centri sociali, le stesse relazioni, partecipano alla stessa economia – più o meno legale.
I mezzi impiegati e la buona volontà dei rappresentanti locali non bastano, le persone continueranno a sentirsi tagliate fuori dalla società per via delle proprie origini, della propria cultura o della propria religione. Nonostante le politiche sociali e il lavoro portato avanti delle autorità locali, a questi quartieri continuano a mancare delle proprie risorse istituzionali e politiche.
Da quando le cosiddette «banlieues rouges» (letteralemente le “periferie rosse”, ndr) sono state sottoposte alla stretta sorveglianza di partiti, sindacati e movimenti di educazione popolare, questi quartieri sono rimasti praticamente senza voce. O perlomeno non esiste alcun portavoce in cui si riconoscano: gli assistenti sociali e gli insegnanti sono pieni di buona volontà, ma non vivono da molto tempo nei luoghi in cui lavorano.
Questa divisione funziona in entrambi i sensi e le sommosse rivelano come gli amministratori e le associazioni non abbiano un collegamento reale con i quartieri dove gli abitanti si sentono ignorati e abbandonati. Gli appelli alla calma restano inascoltati. La spaccatura non è solamente sociale, ma politica.
Una guerra costante
In questo contesto, è venuto a crearsi un clima di guerra costante tra i giovani e gli agenti di polizia. Gli uni e gli altri si muovono in «bande» con le loro faide e i loro territori.
Lo Stato ricorre all’uso della violenza legale e i giovani alla loro delinquenza reale o potenziale. La polizia è considerata «automaticamente» razzista poiché ogni ragazzo è un sospetto a priori. I giovani odiano la polizia, il che «giustifica» il razzismo dei poliziotti e gli abusi. Gli abitanti vorrebbero più agenti per garantire un minimo d’ordine ma al contempo restano solidali con i propri figli.
Questa «guerra» di solito si svolge a bassa intensità, ma quando un giovane viene ucciso tutto esplode e si ricomincia da capo, fino alla prossima rivolta che ci coglierà di sorpresa tanto quanto quelle precedenti.
Eppure qualcosa di nuovo è emerso in questa tragica ripetizione. Prima di tutto l’ascesa dell’estrema destra – e non solo – e l’insediarsi della sua narrazione razzista sulle rivolte nelle banlieues parlando di barbarie e d’immigrazione, che in molti temono finirà per trionfare alle prossime elezioni.
La seconda novità riguarda la paralisi politica e intellettuale della sinistra che denuncia le ingiustizie e che, talvolta, sostiene le proteste, ma che non sembra avere una soluzione politica al di fuori della necessaria riforma delle forze di polizia.
Finché proseguirà questo processo di ghettizzazione, al punto da rendere gli scontri tra giovani e polizia la norma, è impossibile non immaginare come la prossima aggressione e la prossima rivolta non siano già alle porte.
© The Conversation France. Traduzione dal francese di Almerico Bartoli
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