Il Fiume Mekong sta morendo ma nessuno ne parla e dalle sue acque dipende la vita di 60 milioni di persone
Hanno piazzato due bandiere gialle su entrambe le rive del fiume a fine gennaio, li dove sorgerà un’altra diga, e chi vive tanto vicino da poterle vedere già sa che da lì se ne dovrà andare. Si parla di circa quindici villaggi, più di mille abitazioni e oltre seimila persone.
Come se non bastasse l’acqua nel Mekong non è mai stata così bassa, i suoi livelli sono i più bassi registrati negli ultimi cento anni. La “slow boat”, tipica imbarcazione lunga a chiglia bassa, deve destreggiarsi tra enormi rocce che affiorano oltre sei metri sull’acqua e che un tempo erano appena visibili. La navigazione fluviale assomiglia a una discesa in grotta e bisogna affidarsi all’abilità dei barcaioli laotiani che conoscono a memoria il fondo del loro fiume. Sotto i villaggi in attesa sui banchi di sabbia, i passeggeri devono scivolare giù diversi metri per poi saltare sulla barca mentre i vecchi pontili sono visibili asciutti e distanti dalla riva.
È vero che la scorsa stagione dei monsoni è stata meno generosa del solito ma la principale causa di tanta siccità sembra essere la “corsa alle dighe”, la sfida tra nazioni confinanti per lo sfruttamento delle risorse idroelettriche del fiume. E così la Madre di tutte le acque, come viene chiamato il Mekong da chi vive sulle sue rive, rischia di morire. “Energia pulita” sostiene Pechino, sotto pressione per il largo utilizzo di centrali a carbone, “strategia di sviluppo e la lotta alla povertà” si difendono gli altri governi interessati. Intenti nobili ma gli effetti sull’ecosistema sono devastanti se si considera che, oltre a una porzione del sud della Cina, il Mekong è il principale fiume di Myanmar, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam e che con le sue acque produce il cibo per tutto il sud est asiatico.
I problemi cominciano al nord, in Cina, dove prende vita dall’altopiano tibetano. Dal 1995 a oggi il governo cinese ha inaugurato sette dighe e altre tre dovrebbero presto arrivare. Risultato: una sensibile riduzione del livello delle acque in tutti i Paesi a valle. Passando il “ponte dell’amicizia” tra Chiang Kong, sulla riva thailandese, e Huay Xai, sulla riva laotiana le rive asciutte occupano quasi la metà del letto del fiume. Qui l’acqua è scesa di oltre la metà nel giro di una notte a causa di una repentina chiusura del flusso delle acque della diga cinese di Jinghong per lavori di manutenzione. Diverse barche sono rimaste a secco sulle riva e orti e coltivazioni sono rimasti privi di irrigazione.
Nelle province del nord i danni sono stati ingenti e, riparato all’ombra della tenda della cucina a poppa della slowboat, Deng Mailaomon, impiegato in una cooperativa di sviluppo agricolo sostenibile a Oudomxay, racconta che “ormai si lavora la terra sapendo che se domani i cinesi chiudessero la diga tutta il nostro lavoro stagionale verrebbe sprecato, sappiamo che la nostra voce non ha valore davanti ai loro interessi, ogni mattina possiamo solo sperare che l’acqua arrivi”. Da Bangkok si sono levate proteste e il governo ha promesso di farsi sentire con Pechino. La Cina ascolta ma per ora non da risposte.
Legati da un destino comune i governi dei paesi bagnati dal Mekong hanno costituito nel 1995 la Mekong River Commission (prima nota come Mekong commette) con la missione di “promuovere e coordinare la gestione e lo sviluppo sostenibile dell’acqua e delle relative risorse per i paesi e il benessere delle popolazioni.” La MRC, organo unicamente consultivo, si esprime sui progetti relativi al Mekong ma rimane fortemente legata ai governi partecipanti e ai loro interessi. Partecipano tutti i Paesi bagnati dal fiume tranne il Myanmar e la Cina, un’assenza pesante la seconda che rischia di vanificare gli sforzi.
Da Huay Xai, uno dei porti principali per la navigazione sul basso Mekong, partono le “slow boat” per Luang Prabang, antica capitale reale laotiana. Servono due giorni di navigazione e la notte le barche fanno sosta a Pak Beng. L’intera economia del villaggio dipende dalle “slow boat”, dagli ostelli per backpackers al commercio di gasolio. Uno dei proprietari di guesthouse, Olee Soulisack, che ogni sera attende l’arrivo della barca reggendo un cartello con prezzi e foto delle sue camere, racconta che “le barche arrivano da Huay Xai sempre più a fatica e che se dovessero fermarsi sarebbe la fine per Pak Beng.”
Con l’acqua bassa in genere arrivano i cercatori d’oro, contadini, riparati dal sole dai loro cappelli in bambù, sprofondati nella sabbia setacciano il letto del fiume in cerca di scaglie dorate che l’acqua trascina con sé dagli altopiani. Le dighe cinesi però trattengono i sedimenti e, oltre all’acqua, si infilano in tasca anche l’oro del nord.
La portata d’acqua torna a crescere dopo Pak Beng grazie all’immissione di alcuni affluenti, ma al Mekong non vogliono dare respiro. Il Laos ha approvato la costruzione della sua seconda diga proprio a ridosso di Luang Prabang, progetto che dovrebbe vedere il suo inizio nel tardo 2020 e determinerebbe un blocco di tutta la navigazione. A grosso rischio anche il patrimonio artistico locale, tra cui le grotte di Pak Ou che si troverebbero solo tre chilometri a valle della nuova diga. Grotte a picco sul fiume in cui i devoti vanno a meditare sin dal sedicesimo secolo e dove quattromila immagini del Buddha osservano dall’alto lo scorrere del fiume.
Il governo laotiano tira dritto e ha approvato la costruzione della seconda diga, affidata a investimenti e aziende thailandesi, tanto solerti da protestare contro Pechino per le dighe a monte quanto felici di costruirne a valle della loro porzione di fiume. Sul fiume intanto si stagliano i piloni in costruzione del ponte dell’alta velocità cinese, pronta a sfrecciare dalla Cina centrale sino a Vientiane e di li giù Bangkok. Treni carichi di turisti e di investimenti, infrastrutture ciclopiche che renderanno la navigazione fluviale obsoleta. Il partito unico Laotiano ha varato il piano di trasformare, grazie alle nuove dighe, la Repubblica Popolare del Laos nella “batteria d’Asia” e sollevare così il piccolo paese di soli sette milioni di abitanti dalla povertà grazie alle risorse sue naturali.
Poco più a sud, destinata a entrare in piena funzione nella metà del 2020, la diga Xayabouri è parzialmente attiva già dal febbraio 2019 e ha già causato non poche complicazioni. I villaggi a valle della diga hanno registrato repentini cambi di livello dell’acqua e anche strani cambi di colore con l’arrivo di un’acqua color blu cobalto mai vista prima. Anche la pesca sembra risentirne e i pescatori a valle della diga lamentano che nelle reti ormai non trovano che detriti. Preoccupazioni raccolte dal governo che promette l’utilizzo nella nuova diga di delicate turbine “fish friendly” che favorirebbero il passaggio dei pesci e di una mai sperimentata tecnologia di “fish lifting corridors”, sostanzialmente un ascensore per pesci.
Hanno promesso zero rischi, ma forte è il ricordo del collasso di una diga in costruzione nel 2018, in una provincia più a sud che ha spazzato diversi villaggi disperdendo centinaia di persone. Luang Prabang, patrimonio Unesco e città da settantamila abitanti verrebbe travolta dall’acqua in pochi minuti se questo dovesse accadere di nuovo. Non rimane che allontanare la paura, proprio come fa la statua del Buddha Prabang: in piedi con entrambi palmi rivolti in avanti, figura da cui la città prende il nome.
Anche nel caso della diga di Luang Prabang i rapporti tra vicini si complicano. Il Vietnam che a suo tempo tuonò contro gli investitori thailandesi della diga di Xayabouri e ne chiese l’immediata sospensione nel 2011 a causa delle conseguenze drammatiche per l’ecosistema del Mekong, oggi entra in cordata con gli stessi Thailandesi attraverso la Petrovietnam. Motivo del cambio di opinione sembra semplice, qualcuno ad Hanoi ha capito che se non si facevano avanti loro, i Laotiani si sarebbero rivolti a Pechino.
Chi rimane, letteralmente, a bocca asciutta è la Cambogia: nel basso Mekong l’allevamento ittico e la produzione di frutta sono un grosso business per il Paese messo in serio pericolo dallo scarso approvvigionamento d’acqua. Ma anche Phnom Penn è decisa a non rimanere esclusa dal club delle potenze idroelettriche e grazie a investimenti e tecnologia cinese ha avviato la fase di progettazione della diga di Sambor. Forti opposizioni al progetto arrivano da Bangkok, guarda caso, il principale fornitore di energia elettrica per il Paese che al momento non riesce a produrre da solo il proprio fabbisogno.
La diga di Sambor diverrebbe la tredicesima lungo il suo corso per il Mekong, il quale, lasciata la cambogia si disperde in Veitnam nel suo delta a nove rami. Il drago d’acqua a nove code, secondo una leggenda vietnamita, che dopo aver sfamato sessanta milioni di bocche muore nel mar cinese meridionale.