Ha rievocato l’eredità dell’impero zarista, ha messo in dubbio la legittimità dell’esistenza dell’Ucraina e ammonito la Nato. Tutto a reti unificate, da Minsk a Vladivostok. Ma quando parla, Vladimir Putin non sembra mai rivolgersi a un solo interlocutore.
Mentre la sera del 21 febbraio il presidente si produceva nella sua contorta lezione di storia, centinaia di migliaia di giovani russi leggevano nel messaggio del Cremlino non solo un’esplicita dichiarazione di guerra a Kiev ma anche una minaccia a un’intera generazione, la loro. La caccia al nemico interno infatti è sempre più spietata di quella fuori dalle frontiere e la generazione che negli scorsi anni si è battuta per dare alla Russia un futuro diverso ha capito che quel discorso non era tanto rivolto al mondo esterno, come Putin voleva far credere, ma era diretto proprio a loro.
La grande fuga
Offuscato dal rumore dei carri armati che entravano nel Donbass, è infatti quasi caduto nel vuoto il tweet al vetriolo che Alexei Navalny, dalla sua cella e per mezzo del suo avvocato, ha dedicato proprio a Putin. Una delle invettive più feroci dell’oppositore che pochi mesi fa avrebbe fatto il giro delle prime pagine di mezzo mondo ma che poche redazioni europee hanno condiviso. Ed è forse questa la preoccupazione principale di migliaia di ragazzi che sperano in un’esistenza pacifica: la paura che, se l’Occidente decidesse di identificare la Russia intera come suo nemico, ci si dimentichi completamente di loro. Stando ai sondaggi del Levada Center, il riconoscimento delle repubbliche separatiste ucraine di Donetsk e Luhansk e l’azione militare può incontrare il favore di buona parte delle vecchie generazioni ma i dati relativi agli under-30 sono largamente contrari alla guerra con Kiev.
Per tutta una generazione, il 2014 non è stato solo l’inizio del conflitto in Ucraina ma anche l’avvio di una politica di inasprimento del controllo sulle opposizioni e sui movimenti sociali, che ha portato molti giovani studenti a emigrare. Un flusso che si aggiunge a un’emorragia già problematica. Secondo uno studio del portale Takie Dela, oltre 5 milioni di under-35 hanno lasciato il Paese tra il 2000 e il 2020, principalmente verso Europa e Nord America. Fenomeno a cui si aggiunge l’emigrazione politica, come spiega la Free Russia Foundation: a causa di procedimenti penali o pressioni politiche, solo nel 2021 più di 1.500 attivisti politici e giornalisti sono stati costretti ad abbandonare la Russia, con Georgia, Lituania e Ucraina come principali destinazioni.
Un’opposizione sotto traccia
Non tutti sono andati via però, anzi. La maggioranza degli attivisti è rimasta e continua a lavorare sotto traccia, approfittando anche di una delle reti di informazione digitale alternativa tra le più sviluppate al mondo. Uno di questi siti è la rivista studentesca Doxa, nata nel 2017 tra gli studenti della Higher School of Economics di Mosca, e inizialmente concepita come piattaforma per discutere temi come gli abusi della polizia, le molestie sessuali, la censura e la precarietà del lavoro accademico. Lo scorso aprile, la polizia russa ha perquisito la redazione e le abitazioni di diversi editori tra cui Armen Aramyan, uno studente di 24 anni. Armen è stato condannato a causa di un video in cui rilanciava una protesta di alcuni liceali. La sentenza si basa su un preciso reato previsto dal codice penale russo (paragrafi “a”, “b” e “c” della parte 2 dell’art. 151.2), che punisce gli «atti che mettono in pericolo la vita dei minori nelle reti di informazione e nelle telecomunicazioni digitali». Così dal 14 aprile 2021, Aramyan è agli arresti domiciliari.
«Sono chiuso in casa da dieci mesi, a causa del mio lavoro giornalistico. Da qui seguo continuamente lo sviluppo di questa crisi e forse la cosa più dolorosa in tutto questo è proprio il sentimento della propria impotenza», spiega Armen a TPI. «Negli ultimi anni, le autorità russe hanno sostanzialmente riconosciuto come illegali tutte le forme di protesta e di espressione del dissenso. Tutti hanno la sensazione che non si possa fare nulla. Inoltre, l’incarcerazione degli attivisti dell’opposizione, l’assegnazione dello status di “agenti stranieri” ai media dell’opposizione ha decimato le voci libere. Per me tutto questo è doppiamente doloroso perché la mia ragazza è ucraina. La sua famiglia vive in Ucraina e mentre Putin e i suoi amici giocano alla guerra, i suoi parenti devono decidere dove scappare se le ostilità dovessero raggiungere Kiev».
L’universo giovanile russo soffre anche di uno scollamento quasi totale da tutto ciò che è istituzionale, un problema a cui il Cremlino cerca di far fronte da anni attraverso il finanziamento di organizzazioni di giovani vicine al partito di Putin, che però non hanno mai lasciato il segno. Se il divorzio tra giovani e televisione è una realtà globale, in Russia è un processo accelerato dalla presenza a reti unificate di trasmissioni filogovernative che in questi giorni stanno martellando gli schermi con la teoria di un Paese sotto attacco da parte dell’Occidente. Programmi che i giovani non guardano, come sottolinea con amara ironia Navalny nel suo tweet: «Voi non guardate i canali federali, lo so, ma per me che sono in cella invece sono l’unica cosa che posso vedere e vi assicuro che NON ci sono ALCUNE notizie sulla Russia. Dal primo all’ultimo pezzo, solo Ucraina, Usa ed Europa».
“Scollegato dalla realtà”
Spariscono infatti anche le news di attualità come quelle sulla gestione della pandemia che ormai in Russia si avvicina alle 350mila vittime, con un tasso di mortalità prossimo a quello italiano. La grande lotta contro l’Occidente monopolizza le tv di Stato e lascia poco spazio ai temi sociali, su cui l’indice di gradimento del Cremlino scende in maniera drastica. In questa morsa è praticamente impossibile emergere per chi si occupa dei temi più sentiti dalle generazioni post sovietiche. «Invece di migliorare la vita delle persone in Russia, risolvendo problemi su larga scala nella sfera sociale, Putin preferisce spendere denaro pubblico per realizzare le sue ambizioni coloniali, machiste e militariste», spiega a TPI Lolja Nordic, artista e attivista femminista di San Pietroburgo. «Il Cremlino racconta che in Ucraina vengono perseguitati i russi ma nel frattempo ha epurato tutta l’opposizione, perseguitando all’infinito attivisti e Ong – prosegue Nordic – tutto questo discorso è ipocrisia pura e mancanza di rispetto per gli abitanti sia dell’Ucraina che della Russia. Migliorare la qualità della vita della gente comune, combattere la disuguaglianza economica e la povertà nel Paese, rilanciare l’economia è forse troppo noioso per Putin? Meglio spendere denaro in una guerra che finirà di nuovo per ferire milioni di persone comuni».
Preoccupazioni che permeano anche il mondo accademico, secondo Anton Pravednikov, che a 27 anni, dopo essersi laureato in Scienze politiche, ha abbandonato il tirocinio all’Università statale di Mosca a causa delle pressioni subite dopo l’arresto a un raduno dell’opposizione. «Guardando quel messaggio mi è apparso chiaro che Putin ormai è scollegato dalla realtà che lo circonda», racconta a TPI. «Purtroppo da questa situazione mi aspetto ancora più repressione per il mondo accademico e meno fondi per le scienze sociali. Diventerà sempre più difficile esplorare apertamente le questioni politiche. Credo purtroppo che qualsiasi ricercatore che voglia occuparsi di scienze sociali debba aspettarsi il peggio».
La protesta è ancora viva
Insomma, l’aria è piuttosto pesante ma contro questa guerra qualcuno ha voluto comunque metterci la faccia. Domenica 20 febbraio infatti qualche attivista ha organizzato un picchetto contro la guerra a piazza Pushkinskaya, uno dei luoghi rappresentativi delle proteste studentesche e delle cariche della polizia contro gli oltre 5.000 studenti qui riuniti il giorno dell’arresto di Navalny al ritorno dell’attivista in Russia. Domenica scorsa non erano migliaia ma solo una dozzina, con i cartelli: «Giù le mani dall’Ucraina»; «Abbasso il potere dei cechisti» e «Nessuna guerra con l’Ucraina». Metà di loro ha passato la notte in questura. A San Pietroburgo invece, la mattina dopo il discorso di Putin, sul ponte Gorstkin, a cavallo del canale Fontanka, poco prima che questo si disperda nella Neva, è apparso uno striscione con la scritta insanguinata “No alla guerra”, affisso da alcuni attivisti anonimi dileguatisi prima dell’alba.
C’è chi invece l’ondata di repressione l’ha già subita, come l’ong Memorial, storica organizzazione per la difesa dei diritti umani costretta a chiudere lo scorso dicembre dalla Corte suprema russa, ai sensi della controversa legislazione sugli “agenti stranieri”. «Quanto sta accadendo nell’est dell’Ucraina è qualcosa di sorprendente e scioccante», spiega a TPI Igor Gukovsky che presso l’ong Memorial ha lavorato una vita. «Si puo dire che la Federazione Russa sia una democrazia autoritaria dal 2005 circa, ma all’inizio del 2020 è diventato impossibile fare qualsiasi attività di opposizione. Da quando Alexei Navalny è stato avvelenato e altri politici dell’opposizione sono stati perseguitati e condannati. I pochi media indipendenti sopravvissuti potrebbero smettere di esistere da un momento all’altro, come è accaduto per Memorial». A differenza di altri attivisti però, Igor non parla da Mosca né da alcun’altra città russa. Se n’è andato. «Ho visto l’inizio di un’ulteriore campagna repressiva, e l’orizzonte progettuale della mia vita si è ridotto da poche settimane a poche ore, ho deciso che così non potevo andare avanti».
A restare scossi dall’idea di una guerra con un Paese vicino e fratello come l’Ucraina, secondo l’oppositore Vladimir Kara-Murza, non sono solo i giovani ma gran parte della società russa, incluse grandi personalità come la scrittrice Lyudmila Ulitskaya, il pianista Evgeny Kissin e l’ex campione di tennis Yevgeny Kafelnikov. In un editoriale pubblicato dall’attivista russo sul Washington Post, Kara-Murza sostiene di essere stato contattato da queste persone, che gli hanno espresso il loro disagio sugli ultimi sviluppi.
La volontà di Putin di serrare i ranghi dell’opinione pubblica attorno al sostegno alla sua operazione militare potrebbe quindi avere più di qualche crepa e forse sarebbe meglio che qualcuno a Washington e Bruxelles si accorga che il potere di queste crepe nel frenare l’escalation militare vale più di qualsiasi sanzione. A spiegarlo ci pensa Boris Vishnevsky, tra i leader del partito d’opposizione Yabloko, divenuto una celebrità digitale quando alle ultime elezioni il Cremlino schierò due suoi sosia omonimi da candidargli contro nella sua circoscrizione elettorale: «Questa non è la nostra guerra, spero ancora che il conflitto possa essere evitato. E solo noi cittadini russi possiamo fermarla, non l’Occidente né nessun altro dall’esterno». E chissà che anche i suoi sosia non siano d’accordo.