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    Il segreto oscuro della felicità in Bhutan

    Contemplare la morte può portare alla felicità?

    Di Eric Weiner
    Pubblicato il 4 Ott. 2015 alle 10:50 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 11:37

    Mi trovavo a Thimphu, la capitale del Bhutan, e mi stavo sfogando con un uomo di nome Karma Ura seduto di fronte a me. Forse era per il fatto che si chiamasse karma, per l’atmosfera che si respirava oppure perché viaggiare abbatte le mie difese.

    Sta di fatto che decisi di confessargli qualcosa di molto personale. Non molto tempo prima, quasi dal nulla, avevo avvertito alcuni sintomi: fiato corto, vertigini, torpore a mani e piedi.

    In un primo istante, temevo che stessi avendo un infarto, o che stessi impazzendo. Forse entrambi. Quindi sono andato dal dottore che mi ha sottoposto a una serie di test medici, ed è emerso…

    “Nulla,” disse Ura. Ancora prima che potessi completare la mia frase, sapeva che le mie paure erano infondate. Non stavo morendo, almeno non così velocemente come credevo. Stavo avendo un attacco di panico.

    Quello che volevo sapere, però, era: perché proprio ora, dal momento che la mia vita stava procedendo insolitamente bene, e soprattutto cosa ci potevo fare?

    “Devi pensare alla morte per cinque minuti al giorno,” rispose Ura. “Ti curerà”, aggiunse.

    “Come?”, gli chiesi interdetto.

    “Vedi, la cosa è questa: la paura della morte, la paura di morire prima di aver raggiunto i nostri obiettivi o aver visto i nostri bambini crescere, questo è quello che ti preoccupa”, disse.

    “Ma perché dovrei pensare a qualcosa di così deprimente?”, chiesi.

    “La maggior parte delle persone in occidente non ha mai toccato corpi senza vita, ferite aperte da poco, cose marce insomma. Questo è un problema. Ma questa è la condizione umana. Dobbiamo essere pronti per il momento in cui cesseremo di esistere”, disse.

    I luoghi, così come le persone, possono sorprenderci continuamente. A una condizione, però: cioè che noi stessi dobbiamo essere aperti alle sorprese e non appesantiti da concetti aprioristici.

    Il Bhutan è conosciuto principalmente per la sua politica innovativa che lo ha portato a prendere in seria considerazione la felicità interna lorda, un indice che sulla falsa riga del prodotto interno lordo (Pil) calcola il livello del benessere di un Paese.

    È una terra dove regna la felicità e dove la tristezza è vietata. Il Bhutan è decisamente un luogo speciale (così come lo è Ura, il mio amico e direttore del Centre for Bhutan Studies), ma questa sua unicità è meno marcata e, francamente, anche meno radiosa dell’immagine fiabesca con cui talvolta identifichiamo lo Shangri-La.

    In realtà, suggerendomi di pensare alla morte una volta al giorno, Ura ci stava andando piano con me. Nella cultura bhutanese, una persona dovrebbe pensare alla morte circa cinque volte al giorno. Il che sarebbe una gran cosa per qualsiasi nazione, ma in particolare lo è per un Paese così vicino alla felicità come il Bhutan. Sarà, forse, il fatto che è una terra di oscurità e disperazione?

    Non necessariamente. Alcune recenti ricerche indicano che, pensando alla morte così spesso, gli abitanti del Bhutan ne stanno ricavando qualcosa. In uno studio del 2007, gli psicologi Nathan DeWall e Roy Baumesiter dell’università del Kentucky hanno deciso di dividere decine di studenti in due gruppi.

    A un gruppo è stato detto di pensare a una visita dolorosa dal dentista, mentre l’altro gruppo contemplava la morte. A entrambi i gruppi è stato poi chiesto di completare alcune parole. Il gruppo che aveva pensato alla morte era quello più propenso a scrivere qualcosa di positivo.

    Questo ha portato i ricercatori a concludere che “la morte è un avvenimento psicologicamente devastante e minaccioso ma anche che, quando le persone la contemplano, la reazione diretta è quella di ricercare pensieri felici”.

    Niente di tutto questo, sono sicuro, sorprenderebbe Ura, o qualsiasi altro bhutanese. Loro sanno che la morte fa parte della vita, che ci piaccia o no, e ignorare questa verità essenziale può avere gravi ripercussioni psicologiche.

    Perché un atteggiamento così diverso nei confronti della morte? Una ragione per la quale i bhutanesi pensano alla morte così spesso è che è sovente intorno a loro.

    Per essere una piccola nazione, il Bhutan offre molti modi per morire. Puoi trovare la morte sulle sue infide vie tortuose. Puoi essere attaccato da un orso, mangiare funghi velenosi o morire assiderato.

    Un’altra spiegazione dell’elevato tasso di felicità tra gli abitanti del Bhutan è la loro profonda fede nei princìpi buddisti, specialmente in quello della reincarnazione.

    Se sai che avrai un’altra possibilità nella vita, sei meno propenso ad aver paura della sua fine. Come dicono i buddisti, non dovresti aver paura di morire più di quanto non temi di buttar via i tuoi vecchi vestiti.

    Questo non significa certo che i bhutanesi non abbiano mai paura o che non siano mai tristi. Lo sono eccome. Ma come mi ha detto la scrittrice americana Linda Leaming, che vive in Bhutan, non fuggono da queste emozioni.

    “Noi, in occidente, quando siamo tristi, vogliamo subito capire il perché e risolvere la faccenda,” ha detto. “Abbiamo paura della tristezza. È qualcosa da superare, da curare. In Bhutan la morte si accetta e basta. È parte della vita”.

    L’articolo è stato originariamente pubblicato qui. Traduzione e editing a cura di Sabika Shah Povia e Maria Laura Serpico 

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