Dal caos della politica americana agli attacchi polemici della Polonia, fino all’inedita cautela del governo italiano sulle armi. A quasi 20 mesi dall’invasione dell’Ucraina, si moltiplicano le spie della temuta “stanchezza” occidentale, soprattutto in Europa.
Per alcuni Paesi, gli impegni risoluti degli scorsi mesi hanno già ceduto il passo ai condizionali o addirittura, nel caso di Varsavia, allo scontro con Kiev. Una deriva che per il momento si limita alla retorica, ma inizia a gettare qualche ombra sulle prospettive ucraine sul campo di battaglia e su altri fronti.
L’incertezza viene in primo luogo dagli Stati Uniti. Per gli alleati, il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa bianca rende sempre più difficile ignorare l’eventualità di un cambiamento nelle posizioni di Washington. Possibilità emersa con forza nelle trattative per evitare lo “shutdown” delle agenzie federali statunitensi, in cui gli aiuti all’Ucraina sono stati (temporaneamente) sacrificati sull’altare di un compromesso con l’ala più intransigente del partito repubblicano. Una soluzione comunque rigettata dai deputati della destra, che hanno preso la decisione senza precedenti di rimuovere il proprio presidente della Camera, Kevin McCarthy.
In Italia hanno destato qualche scalpore le parole di Giorgia Meloni e del suo ministro della Difesa, che hanno frenato sulla promessa di un nuovo pacchetto di aiuti militari citando la scarsa disponibilità di risorse e «la stanchezza dell’opinione pubblica». «C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe», ha detto senza mezzi termini Guido Crosetto. L’avvicinarsi delle elezioni sembra aver già convinto diversi leader europei a prendere posizione contro l’invio di armi. È stato il caso di Robert Fico, fresco vincitore delle elezioni in Slovacchia, ma anche del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, che ha addirittura annunciato la sospensione degli aiuti militari dopo una disputa con Kiev sulle importazioni di cereali.
L’atlantista inaspettato
Ma nel fronte alleato c’è anche chi non soffre questo «affaticamento». Negli ultimi mesi è infatti emerso un sostenitore inatteso della linea della risolutezza: Emmanuel Macron. Il presidente francese, che nel 2019 aveva proclamato la «morte cerebrale» della Nato, si è da poco rilanciato come campione del fianco orientale dell’Alleanza atlantica.
A lungo scettico sulle possibilità di allargare Unione Europea e Nato, lo scoppio della guerra in Ucraina sembra aver convinto Macron a cambiare linea. In un discorso spartiacque tenuto a Bratislava, ha aperto all’ingresso di Kiev nella Nato, ammettendo di aver ignorato gli avvertimenti dei Paesi dell’Europa orientale sulle intenzioni di Vladimir Putin. «Credo che a volte abbiamo perso l’opportunità di ascoltare», ha detto nel discorso del 31 maggio. «Quel tempo è finito e oggi queste voci devono diventare le nostre voci». Al vertice Nato di Vilnius di luglio la Francia ha poi sostenuto l’ingresso di Kiev nell’Alleanza dopo la guerra, distinguendosi dalla reticenza di Stati Uniti e Germania. Macron ha anche aderito all’impegno del G7 di offrire all’Ucraina garanzie di sicurezza a lungo termine e ha annunciato la fornitura di missili a lungo raggio Scalp.
Una “zeitenwende” francese, come l’ha definita l’Economist, richiamando il «punto di svolta» annunciato da Olaf Scholz in risposta all’invasione dell’Ucraina. Dove per il cancelliere tedesco il cambiamento storico era sulla spesa militare, per Macron la novità riguarda la posizione sull’allargamento dell’Unione, oltre che della Nato. «La questione per noi non è se dovremmo allargare», aveva detto Macron a Bratislava, «ma come dovremmo farlo».
Allargare l’Unione
Assieme al dossier immigrazione, il tema dell’allargamento è stato in cima all’agenda dei due vertici tenuti la settimana scorsa a Granada: quello dei 45 capi di Stato e di governo della Comunità politica europea e quello dei leader della sola Ue.
Durante il vertice informale, i leader dell’Unione hanno discusso dei tempi e delle riforme necessarie per l’eventuale adesione di Ucraina, Moldavia e altri Paesi. Nelle settimane precedenti, il presidente del Consiglio europeo Michel aveva parlato del 2030 come possibile data per l’ingresso di nuovi Stati membri, un traguardo che a molti osservatori sembra irrealistico. Nel comunicato finale, si legge che «l’allargamento è un investimento geostrategico in pace, sicurezza e prosperità», ma non si fa riferimento a Paesi specifici come l’Ucraina. Piuttosto, il testo parla di «riforme» che gli aspiranti membri devono implementare.
I nodi da sciogliere per allargare l’Unione sono ancora molteplici. Primo fra tutti quello economico: l’adesione di Ucraina, Moldavia e Paesi dei Balcani occidentali avrebbe un costo stimato in 256 miliardi di euro. Cambierebbero gli equilibri all’interno dell’Unione, in cui molti Stati che attualmente percepiscono dall’Ue più fondi di quanti ne versano diventerebbero contribuenti netti. Un problema significativo riguarderebbe la Politica agricola comune, date le dimensioni dei terreni agricoli ucraini. Prima della guerra questi, secondo i dati citati dal Centre for European Policy Studies, erano più estesi dell’intero territorio italiano. Includendo l’Ucraina, avvertono gli esperti, il bilancio per la Pac dovrà essere aumentato in maniera drastica.
Anche dal punto di vista politico saranno necessarie riforme. Secondo uno studio presentato da Francia e Germania, l’allargamento si dovrà accompagnare a un’espansione del voto a maggioranza a quasi tutte le decisioni degli Stati membri, in parallelo a un rafforzamento delle regole a difesa dello stato di diritto. Il rapporto, presentato a settembre dai ministri degli Affari europei dei due Paesi più influenti dell’Unione, chiede maggiori poteri per bloccare i trasferimenti agli Stati membri che violano le norme sullo stato di diritto. A Granada il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto che sia rivisto il modo in cui l’Ue delibera, affermando che «dobbiamo poter prendere decisioni importanti solo con la maggioranza qualificata» piuttosto che con l’unanimità di tutti i leader dell’Ue.
L’intesa sui migranti
Una questione emersa con forza anche sull’altro tema chiave del vertice, quello della migrazione. Polonia e Ungheria hanno ribadito la loro contrarietà all’intesa raggiunta nei giorni precedenti sul “pezzo mancante” della riforma sull’immigrazione e la politica d’asilo, in cantiere da anni. La proposta prevede procedure più rapide per le richieste di asilo e regole più vincolanti per la distribuzione dei rifugiati all’interno dell’Ue.
Secondo il primo ministro ungherese, Viktor Orban, la decisione doveva essere presa per consenso e non a maggioranza qualificata, come invece avvenuto. «Dopo questo non c’è alcuna possibilità di raggiungere alcun tipo di compromesso e accordo sulla migrazione… perché legalmente siamo stati stuprati. Se foste violentati, legalmente, costretti ad accettare qualcosa che non vi piace, come potreste trovare un compromesso e un accordo? Sarebbe impossibile», ha detto Orban. Anche il premier polacco Morawiecki, nel pieno della campagna elettorale, ha detto che non è possibile accettare «l’immigrazione clandestina di massa», che è «un diktat di Bruxelles e Berlino».
Alla fine la migrazione è stata esclusa dal comunicato finale, che ha citato l’altro tema all’ordine del giorno, l’allargamento dell’Unione. Ne ha invece parlato Charles Michel nella sua dichiarazione, in cui il presidente del Consiglio europeo ha detto che si tratta di «una sfida europea che richiede una risposta europea» e che gli Stati membri non permetteranno «ai trafficanti di decidere chi entra nell’Ue».
Ha espresso comunque soddisfazione per l’intesa Giorgia Meloni, che durante il vertice ha tenuto un incontro di 40 minuti con Scholz, senza i rispettivi staff. «Si tratta di conversazioni molto intense in cui abbiamo trovato una comprensione molto pragmatica. Siamo entrambi molto contenti di essere riusciti a trovare l’intesa sull’ultimo pezzo fondamentale del diritto europeo in materia di asilo. La riforma è diventata possibile», ha detto Scholz, schermendosi sulla questione dei finanziamenti alle ong («li ha decisi il parlamento, non io»). «Penso che saremo in grado di garantire in modo molto pratico che non lavoriamo gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri», ha aggiunto il cancelliere tedesco, che in conferenza stampa ha tenuto a sottolineare come gli accordi con la Tunisia, fortemente voluti da Roma, rappresentino un modello giusto, da estendere anche ad altri Paesi del Mediterraneo.
Secondo Meloni, il rifiuto di Polonia e Ungheria è legato a una «vecchia percezione» dovuta a una «specificità, anche geografica» dei due Paesi, i cui leader sono stati vicini a Meloni in altri momenti. Questa specificità, secondo Meloni, non consentirebbe di vedere come «la vera battaglia è quella sulla dimensione esterna». La presidente del Consiglio ha chiesto anche finanziamenti per i Paesi africani. Secondo Meloni, Scholz «è consapevole che la strategia italiana è l’unica che può essere efficace: mi ha detto che bisogna andare avanti con questo lavoro in Tunisia».
Il prossimo appuntamento sarà a novembre a Berlino, per la firma del Piano d’azione tra Italia e Germania. Un traguardo che richiamerà inevitabilmente il Trattato del Quirinale, siglato nel 2021 da Macron e dall’allora presidente del Consiglio, Mario Draghi.
“Situazione pericolosa”
A Granada era presente anche Volodymyr Zelensky, che ha preso parte al vertice della Comunità politica europea, lanciata da Macron dopo lo scoppio della guerra al fine di riunire anche i Paesi al di fuori del perimetro dell’Unione europea. Nonostante la «tempesta politica» in corso negli Stati Uniti, il presidente ucraino ha detto di avere «fiducia nell’America». «Questo è un popolo forte, una società forte, istituzioni forti, una forte energia democratica», ha affermato Zelensky, ammettendo comunque che la situazione negli Stati Uniti è «pericolosa» e che «è un periodo difficile».
Secondo Macron, l’Ucraina potrà continuare a contare sul sostegno europeo. «C’è un impegno molto profondo, molto forte perché sappiamo tutti che stiamo parlando di Europa e della possibilità stessa di una pace duratura nel nostro continente», ha assicurato Macron, che ha tenuto a sottolineare: «Non abbiamo diritto di essere stanchi».
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