«Quelli sempre più stanchi della guerra di Putin in Ucraina potrebbero “svegliarsi” in un mondo meno libero»: il monito di Andrij Yermak, capo della segreteria del presidente Volodymir Zelensky, tradisce il crescente timore della leadership di Kiev di un raffreddamento del sostegno dell’Occidente.
Nonostante le reiterate assicurazioni di appoggio «fin quando sarà necessario» e le prospettive di adesione all’Ue e alla Nato, gli Stati Uniti sacrificano alle beghe interne, almeno fino a gennaio, ulteriori aiuti e l’Unione europea non sta al passo degli impegni presi nel fornire munizioni ed equipaggiamenti.
Se chiodo scaccia chiodo, guerra scaccia guerra. Il conflitto scatenato dall’invasione russa, ormai oltre 21 mesi or sono, è ormai divenuto «l’altra guerra» per le cancellerie e per i media, “distratti” (ma anche “attratti”) da quanto di atroce avviene in Medio Oriente. Due scenari su cui tutti gli strumenti della governance internazionale sciorinano analoga impotenza.
Il massacro silenziato
Così, l’Europa, gregaria e ignava, nasconde, dietro l’incapacità trentennale di innescare un processo di pace tra Israele e palestinesi, la mancanza di iniziativa diplomatica sul fronte ucraino: non riesce né a decidere né a muoversi unita verso una soluzione negoziata (quale che sia) del conflitto, di cui, del resto, non ha mai preso l’iniziativa, lasciandola volta a volta alla Turchia, alla Cina, al Papa. E, inevitabilmente, il tempo sgretola la determinazione a una guerra a oltranza con la Russia: Mosca, forse, accusa il logoramento; ma lo avvertono di più le democrazie sensibili all’opinione pubblica.
La “stanchezza” percepita da Yermak in un’intervista a Politico e “confessata” da Giorgia Meloni nella telefonata coi comici russi non si misura solo dalla scomparsa dell’Ucraina dalle prime pagine dei nostri giornali. Gli invii di armi europei, promessi ma ritardati, sono un altro indizio; e l’impatto della campagna elettorale negli Stati Uniti sugli aiuti a Kiev un ulteriore sintomo. Tutto ciò, nonostante che ogni giorno in Ucraina il copione letale – e sostanzialmente inutile – si ripeta: bombardamenti russi, droni ucraini, combattimenti al fronte, vittime civili.
Il presidente Zelensky e i suoi ministri moltiplicano interventi e missioni all’estero, per rinfocolare il sostegno dell’Occidente. Il presidente russo Vladimir Putin esibisce sicurezza e sicumera: visita Paesi dell’ex Unione Sovietica, va al quartier generale delle forze russe, a Rostov-sul-Don, prepara l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali 2024, mentre Kiev ha rinviato le sue. Decisione comprensibile, ma che ravviva le diffidenze occidentali verso la democrazia ucraina: Jean-Claude Juncker, ex presidente della Commissione europea, parla di un Paese «totalmente corrotto».
L’inverno sta arrivando…
Di fatto, l’inverno 2023 cala su una linea del fronte quasi inalterata rispetto al precedente, perché la controffensiva di primavera ucraina non ha prodotto risultati sostanziali. Nell’ultimo mese, Kiev ha provato a rilanciare la sua azione e ha colpito nel Mar Nero, ottenendo, però, risultati nell’insieme modesti: nel Paese invaso, s’incrina la speranza di una vittoria sul terreno.
L’Europa si appresta a un inverno fra due guerre, con il timore di una crisi energetica persino più grave e più profonda – negli effetti economici – di quella dello scorso anno. Se ci conforta pensarlo, le contraddizioni non sono solo europee (questa, però, è un’aggravante, non un’attenuante): un’inchiesta del Washington Post accerta che il petrolio russo, colpito dalle sanzioni occidentali, finisce addirittura nei serbatoi del Pentagono, tramite una raffineria in Grecia: l’ennesima prova della porosità delle sanzioni, della disinvoltura nell’applicarle e della loro relativa efficacia.
Dagli archivi di guerra emergono, poi, con maggiore chiarezza, pagine oscure di disinformazione. Si accerta che il sabotaggio del gasdotto Nord Stream nel settembre 2022, inizialmente attribuito quasi in automatico alla Russia, è stato organizzato da un colonnello delle forze speciali ucraine, Roman Chervinsky. Il sabotaggio, presentato come un attacco russo a un’infrastruttura energetica europea potenzialmente essenziale, era un’operazione di Kiev per screditare ulteriormente Mosca.
Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba segnala ritardi dell’Ue nella consegna di un milione di proiettili di artiglieria, promessi, ma mai pervenuti. Secondo Politico, solo 300 mila munizioni sono state consegnate: uno stallo dovuto a una carenza di capacità industriale militare. Cioè, i 27 non hanno un apparato produttivo bellico capace di fare fronte alle esigenze di Kiev e d’una guerra di posizione che richiede 30 mila proiettili di cannone sparati ogni giorno da entrambe le parti.
Martedì 14 novembre, dopo un Consiglio della Difesa dell’Ue, è stato annunciato che Francia e Germania consegneranno 120 mila proiettili entro il 2024. Il segretario della Nato Jens Stoltenberg ammette che «la situazione sul campo di battaglia è difficile» e rinnova un po’ ritualmente l’appello agli alleati ad «aumentare l’appoggio a Kiev, perché non possiamo consentire che Putin vinca».
…e anche le elezioni
Come Usa, Russia e Ucraina, pure l’Ue ha dinamiche elettorali, intrecciate ad ambizioni personali: verso il voto europeo del giugno 2024, e il rinnovo dei vertici delle istituzioni Ue e Nato, è corsa alle cariche di segretario generale dell’Alleanza atlantica e presidente della Commissione europea. Per la prima, che Stoltenberg, già “in prorogatio”, dovrebbe lasciare, si fa avanti il premier olandese uscente Mark Rutte. Per la seconda, Ursula von der Leyen cerca una riconferma, sposando la linea atlantista sull’Ucraina e americana in Medio Oriente, ma ha una rivale alla sua stessa famiglia politica, i Popolari, in Roberta Metsola, attuale presidente del Parlamento europeo.
Il dossier dell’adesione dell’Ucraina all’Ue diventa, così, terreno di scontro di personalità. Lo zelo di Ursula von der Leyen nel portarlo avanti non è condiviso da molti dei 27, al di là delle generiche affermazioni di appartenenza comune. E una missione a Kiev della presidente della Commissione, appena prima che venga deciso l’avvio di negoziati formali, desta critiche dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, un liberale che non ha un buon rapporto con von der Leyen, e di Josep Borrell, capo della diplomazia europea, socialista catalano.
Il nuovo dis-ordine mondiale
Certo, il contesto internazionale non incoraggia un’azione dell’Ue. Intervenendo a un’assemblea del Movimento europeo, Piero Fassino, ex ministro degli Esteri, denuncia «l’anarchia mondiale»: l’Onu, l’Osce – di cui la crisi nel Caucaso tra Armenia ed Azerbaigian accerta «la morte cerebrale» -, il G7, il G20, tutti gli organismi della governance internazionale sono deboli e contestati e non sono adeguatamente rappresentativi; Cina e Russia, ma pure India, Brasile, Sudafrica prospettano, magari confusamente, un nuovo ordine mondiale.
Nella “anarchia” sguazza il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che a tutte le parti in commedia: leader della Nato e – tiepidissimo – candidato all’Ue; mediatore tra Russia e Ucraina, comprando armi russi e grano ucraino; “custode” per conto dei 27 degli esuli siriani; sostenitore dei palestinesi, controcorrente rispetto all’Occidente, ma nell’alveo dell’essenza musulmana del suo Paese.
Su questo sfondo, è oggettivamente difficile prendere l’iniziativa di cercare di risolvere conflitti molto complicati. In Ucraina, l’annessione dei territori occupati da parte russa ha creato una situazione di fatto: se si ammette che la soluzione passa per un compromesso territoriale, si smentiscono 21 mesi di dichiarazioni sull’integrità territoriale del Paese invaso.
In Medio Oriente invece, c’è un solco di rancore, odio, incomunicabilità; per la soluzione dei due Stati, non ci sono interlocutori affidabili (il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ci crede e l’Anp è debolissima); l’Ue deve recuperare, agli occhi di Israele, un ruolo di terzietà, perché è percepita come pro-palestinese.
Il copione non cambia
Ma la complessità dei dossier non deve diventare il paravento dietro cui nascondere atteggiamenti imbelli e mancanza d’unità, la marginalità dell’Ue rispetto agli Stati Uniti, la vocazione gregaria, rispetto agli Usa.
La pandemia, ci aveva illuso sul potere dell’Ue. Dopo una fase di incertezze e oscillazioni, l’Unione aveva risposto in modo sostanzialmente consono alle indicazioni della scienza ed aveva pure avuto il colpo di reni di mettere in comune una fetta di debito – è stata la prima volta -, per consentire all’economia di rimettersi in moto dopo il brusco stop, specie nei Paesi più fragili – fra cui l’Italia -.
Poi è venuta la guerra in Ucraina. E l’Unione non ha trovato di meglio che allinearsi alla posizione degli Stati Uniti e, quindi, dell’Alleanza atlantica. Per carità, giusto stare dalla parte degli invasi contro gli invasori. Ma, in 21 mesi di guerra ai loro confini, i 27 potevano pure trovare l’autonomia per un’iniziativa di pace, invece di stare ad osservare, di volta in volta, i tentativi della Turchia o della Cina o di Papa Francesco, nel ruolo di ruota di scorta di tutti gli uomini di buona volontà ma smidollati che aspettano la manna della Provvidenza.
Adesso, la scena si ripete. Nella guerra tra Israele e Hamas, l’Europa non tocca palla; e neppure ci prova. A parte atti umanitari, declaratori, simbolici, nulla, nada, rien, nichts, nothing, per dirla solo in alcune delle lingue dell’Ue: nisba. I conflitti in Ucraina e tra Israele e Hamas confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che l’Unione europea politica non c’è: inutile invocarla, fin quando i 27 dovranno fare le scelte internazionali all’unanimità e non a maggioranza.
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