«Mi sveglio tutti i giorni verso le 4, mi tolgo il pigiama, mi vesto e mi rimetto a letto. Se per le 7 non hanno ancora bussato vuol dire che anche oggi sono libera». Gozde Çağri Özköse, giornalista di 41 anni, è convinta che la polizia presto si presenterà di nuovo anche alla sua porta. L’8 giugno il suo capo redattore alla Mezopotamya Agency l’ha chiamata alle 5 del mattino per sapere se era stata arrestata, perché era in corso un’operazione di polizia. In quelle ore, 21 giornalisti curdi di diverse testate sono stati portati nel carcere di Diyarbakir, per il Times tra le dieci prigioni peggiori al mondo a causa delle violenze e delle torture subite dai detenuti.
Quasi un mese dopo l’arresto, i capi di accusa non sono stati né depositati né tantomeno comunicati agli imputati e agli avvocati difensori, ma nel frattempo la polizia ha perquisito gli appartamenti e sequestrato gli uffici di ben sei diversi organi di stampa, tra cui Mezopotamya Agency, JinNews e Xwebûn, confiscando materiale tecnico per quasi 200mila euro. «Un danno enorme che di fatto ci impedisce di lavorare», continua Özköse. Tutti sono stati interrogati rispetto alle loro attività giornalistiche, il contenuto di programmi televisivi, che domande fanno per un articolo, le linee editoriali per la pubblicazione di un pezzo, e dopo gli interrogatori l’arresto è stato confermato per 16 di loro, mentre altri cinque avranno l’obbligo di firma e il divieto di lasciare il Paese. «Nonostante le nostre richieste il giudice non ci ha comunicato formalmente le accuse ma allo stesso tempo ha fatto insinuazioni in merito con agenzie di stampa vicine al governo», spiega a TPI l’avvocato Resul Temur che aggiunge: «Non ci sono basi legali per questi arresti. Il giudice parla di adesione a gruppi terroristici ma non ci sono le prove. La verità è che gli imputati hanno svolto attività giornalistica scomoda e li si vuole fermare».
Con la scusa della propaganda terrorista, che colpisce qualsiasi voce critica con la linea di governo, oggi in Turchia ci sono 65 giornalisti in prigione. Almeno 241 sono stati perseguiti solo nel 2021, e centinaia hanno obbligo di firma e divieto di espatrio. Non solo. Avvocati, politici eletti, attivisti, chiunque non segua la narrazione mainstream del governo, chiunque racconti quello che avviene, o dia voce al dissenso viene arrestato e bollato come terrorista. In Turchia si va in prigione per un post su Facebook. «La Turchia è uno dei principali carcerieri di giornalisti al mondo», spiega dall’esilio Abdullah Bozkurt, presidente dello Stockholm Center for Freedom che in un recente rapporto ha descritto come il governo abbia sistematicamente silenziato, accusato e imprigionato giornalisti che hanno fatto il proprio mestiere. E non solo loro, bisogna ricordare che in carcere ci sono migliaia di persone perché dissentono con le politiche del governo.
“Un utile dittatore” l’aveva chiamato il premier Mario Draghi, proprio in questi giorni in visita ad Ankara, e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, al potere con il partito islamista Akp, sta riuscendo ad avere la meglio sulla Nato e, in particolare, su Finlandia e Svezia, imponendo delle misure lontanissime finora dalle politiche dei due Stati. In un memorandum di tre pagine firmato durante l’ultimo vertice Nato a Madrid, parla tra l’altro di deportazioni in Turchia per concittadini e persino cittadini di Stati terzi, e la necessità di bollare come terrorista chiunque simpatizzi con l’amministrazione della Siria del Nord Est, lo Ypg o le Ypj, le unità di Difesa del Popolo e delle Donne. Le donne e gli uomini che hanno sconfitto l’Isis.
Se qualcuno avesse l’illusione che questo memorandum sia solo un pro-forma, Erdogan ha chiarito subito che bloccherà l’adesione di Finlandia e Svezia se non sarà attuato. Il 70 per cento dei finlandesi ha già dichiarato di non voler entrare nella Nato a queste condizioni ma i governi di entrambi i Paesi sembrano convinti di voler tradire ancora una volta i curdi pur di far parte dell’Alleanza Atlantica, che dice di essere portatrice di democrazia. Intanto Erdogan si prepara alle elezioni del prossimo anno. La situazione nel Paese è molto tesa, l’inflazione corre, l’economia rallenta e la Turchia è in guerra su più fronti. L’ultima operazione, ancora contro i curdi, sulle montagne tra l’Iraq e la Turchia dove l’aviazione non risparmia nessuno, tantomeno i civili e in più usa armi chimiche, non sta andando come sperava. I guerriglieri del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, resistono sulle montagne che li hanno protetti per quasi quarant’anni. Non riuscendo ad avere una chiara vittoria per il suo elettorato, Erdogan si prepara anche a una nuova guerra di aggressione contro la Siria del Nord Est, lamentando minacce alla sicurezza interna. Ma la verità è che vuole distruggere la speranza di autogoverno dei curdi in Siria, non accetta una regione in cui democrazia diretta, ecologia e liberazione delle donne siano poste al centro della vita politica. Tutte idee che sono riconducibili ad Abdullah Öcalan, fondatore del Pkk e dal 1999 detenuto sull’isola di Imrali in condizioni disumane.
«Questa nuova retata contro i giornalisti è partita da Diyarbakir perché hanno denunciato la corruzione del consiglio comunale imposto dall’Akp, e molto probabilmente si allargherà a Urfa, Ankara, Istanbul e altre città», spiega al telefono Özköse. Il suo tono è calmo, quello di qualcuno con esperienza e che ha dovuto vivere questa situazione troppe volte. Nelle scorse elezioni il Partito Democratico dei Popoli (Hdp) è riuscito a conquistare 65 comuni e, per tutta risposta, il governo ha rimpiazzato con la forza i sindaci e i consiglieri comunali eletti in almeno 33 città, tra cui Diyarbakir, e ha sbattuto in prigione centinaia di deputati, sempre con l’accusa di terrorismo. Dal 2015 almeno 15mila membri del partito sono stati arrestati, 6.000 hanno ricevuto sentenze pesanti, compreso il leader Selahattin Demirtaş, arrivato inaspettatamente terzo alle scorse elezioni politiche e ora dietro le sbarre.
«Con il nostro lavoro abbiamo svelato traffici di armi, e le relazioni della compagnia Baykar (che produce droni e vende in tutto il mondo – ndr) guidata dal genero di Erdogan e suo possibile delfino; abbiamo raccontato dei legami tra il governo e lo Stato Islamico e altre bande islamiste, siamo gli unici a raccontare quello che sta succedendo in Siria o in Iraq», continua la giornalista. «Tutti i giorni cerchiamo di raccontare la verità». Nel 2013 era a Gezi Park, a Istanbul, stava ancora studiando e con la sua macchina fotografica ha cominciato a documentare la violenza e la repressione della polizia nei confronti di migliaia di persone che chiedevano di salvaguardare il parco rispetto alla costruzione di un centro commerciale. «Da quel momento ho cominciato a seguire le manifestazioni anche dopo Gezi, e con altre persone abbiamo formato un gruppo media. In questo contesto ho capito quello che subiva la popolazione curda». Così ha cominciato a lavorare per l’agenzia e ora è a capo della redazione internazionale. «Ho seguito delle storie così ingiuste e violente che quando scrivevo piangevo, onestamente non mi sono mai abituata ai soprusi anche se il mio capo mi prende spesso in giro». Una tra tutte la storia di una donna curda anziana a cui veniva continuamente negato il colloquio con il figlio in carcere perché non sapeva parlare turco. Così ha imparato solo: “Come stai?”, e tutto il tempo le ripeteva a macchinetta nella speranza di poter rivedere il figlio, permesso che le è stato negato. È morta senza riabbracciarlo. «Siamo gli unici che raccontiamo queste storie, per questo veniamo continuamente vessati». Da due anni Özköse ha l’obbligo di firma e il divieto di uscire dal Paese ma non le importa. «Io amo questo lavoro. Continuerò a farlo, non mi fermerò, non posso. E se finirò in prigione continuerò anche da lì». Uygar Önder Simsek, rinomato fotogiornalista, è scappato dalla sua Turchia. «Avevo fatto un reportage per il Washington Post in Siria dove ho ritratto i combattenti dello Ypg e Ypj a Manbij. Ho condiviso l’articolo su Facebook e la polizia si è presentata alla mia porta». L’accusa di nuovo è propaganda terroristica: hanno selezionato una dozzina di post sul social media — «tutti sul mio lavoro», racconta — e Simsek è stato condannato a due anni e mezzo di carcere. È riuscito a scappare appena in tempo e oggi vive in esilio in Germania dove continua a lavorare.
Secondo Abdullah Bozkurt, «l’intensificazione della repressione della stampa è iniziata nel 2015 con il sequestro da parte del governo del terzo più grande media Ipek Group, seguito dal sequestro del giornale più diffuso del Paese, Zaman, nel marzo 2016». A luglio dello stesso anno, un colpo di Stato fallito volto a rovesciare Erdogan, ha dato il via a una nuova ondata di repressione. Infatti, subito dopo «sono stati chiusi quasi 200 giornali. Con i media imbavagliati, il governo Erdogan ha iniziato a reprimere le ong, i gruppi della società civile e l’opposizione. Questo schema continua anche oggi, con un’ulteriore escalation e una brutale repressione su tutti i settori della società turca». In altre parole: «Erdogan ha armato il sistema giudiziario penale turco per dare la caccia a giornalisti e oppositori. Abusa di meccanismi internazionali come l’Interpol e la Nato per dare la caccia anche all’estero. Il protocollo d’intesa firmato con Svezia e Finlandia non ha alcuna applicazione pratica, poiché le parti hanno approcci opposti alla libertà di stampa. Ma il governo di Erdogan cercherà di usarlo per esercitare maggiore pressione e sostenere la campagna di intimidazione contro i giornalisti in esilio». Tra questi c’è anche Bozkurt in esilio dal 2016. Non teme di essere deportato, ma è preoccupato per la sua sicurezza «quando il mio nome e la mia foto vengono pubblicati sui giornali filogovernativi turchi e sono oggetto di una campagna diffamatoria con ogni sorta di appellativo. Quasi la metà dei turchi della diaspora in Svezia sostiene il partito di Erdogan e mi sento in ansia quando cammino per le strade di Stoccolma, temendo il rischio di una violenza da parte dei vigilanti. Sono già stato aggredito davanti a casa mia un anno e mezzo fa e ho riportato alcune ferite». La longa manus della repressione da pochi mesi si estende anche ai media internazionali. Infatti il governo ha varato una nuova legge per cui le testate straniere si devono registrare ufficialmente e ricevono in cambio delle linee guida. Voice of America e Deutsche Welle si sono rifiutate di ottenere la licenza, e quindi sono state oscurate. A ottobre verrà rivotata una legge sui social media, e chi condivide “fake news” rischia il carcere. Non è chiaro come e chi deciderà cosa sia fake e cosa no, ma è evidente che qualsiasi critica verrà punita severamente.
Intanto le carceri scoppiano. Secondo una ricerca del Consiglio Europeo pubblicata nel 2021, la Turchia è il più grande carceriere d’Europa, viene superata (di poco) dalla Russia. L’Associazione per i Diritti Umani (Ihd) riassume i dati: ci sono 341.502 persone in prigione, di queste 1.517 sono malate e 651 in condizioni gravi. «Le cure ai detenuti possono essere impedite per semplici motivi. I carcerati subiscono molte violazioni dei loro diritti, come la perquisizione della bocca, il trasporto in ospedale in veicoli insalubri e le visite in manette quando si recano in ospedale. Sebbene gli ospedali pubblici diano il referto “non può stare in prigione” ai detenuti malati che non sono in grado di sopravvivere da soli, l’Istituto di medicina legale (Atk) rifiuta questi referti e tutti vengono riportati in carcere», racconta Delal Akyüz. Anche lei scrive per l’agenzia e segue il sistema carcerario. La situazione dei detenuti politici, spiega, è particolarmente grave. «Solo alcuni esempi di prigionieri che potrebbero morire da un momento all’altro nelle carceri turche sono Mehme Emin Özkan, 84 anni, rinchiuso nella prigione di tipo D di Diyarbakır da 27 anni per un crimine che non ha commesso. Mehmet Emin Özkan, affetto da molteplici patologie e più volte segnalato come “idoneo alla detenzione” dall’Atk, continua a essere detenuto perché curdo». E racconta il caso di Abdullah Ece, 73 anni, morto in carcere quando doveva essere libero ma gli agenti penitenziari hanno ignorato l’ordine di rilascio.
Albert Camus scriveva che «una stampa libera può essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non potrà mai essere altro che cattiva». Ozgur Ogret, lavora per il Comitato di Protezione dei Giornalisti (CPJ) negli Stati Uniti, e riassume la situazione così: «L’ultimo decennio di governo dell’Akp è stato duro per i media in un modo difficilmente paragonabile a qualsiasi altro periodo della storia moderna della Turchia. Solo un decennio fa, la Turchia aveva media molto dinamici e variegati; oggi, invece, abbiamo il dominio degli organi di informazione filogovernativi e pochi altri coraggiosi che cercano di sopravvivere di fronte alle vessazioni del governo». Per usare le parole di Freedom House, che svolge attività di ricerca e di advocacy sulla democrazia, la libertà politica e i diritti umani, dice che la Turchia non è libera.
Martedì 5 luglio, mentre scriviamo, il sindacato della stampa libera ha organizzato un presidio ad Ankara per chiedere il rilascio dei colleghi. «Forse non uccidono i nostri amici come facevano negli anni ‘90, ma li trattengono e li arrestano. Alcuni sono costretti a migrare. Noi continuiamo a scrivere, indipendentemente da ciò che fanno. Nessuno scrive le storie che scriviamo noi. O hanno paura di farlo o, se lo fanno, distorcono la verità. Siamo venuti qui pagando prezzi molto alti. Abbiamo 52 martiri della stampa libera. Continueremo sulla nostra strada perché la gente ha bisogno di sentire la verità», ha spiegato il giornalista e scrittore Hüseyin Aykol. Poco dopo la polizia ha attaccato il presidio. Tre giornalisti sono stati fermati. Mi ha avvisata Özköse via messaggio: «Durante la conferenza stampa hanno arrestato anche il mio capo redattore, vado a vedere e ti faccio sapere». Per ore i miei messaggi non le arrivano. Alla fine mi risponde, era in ospedale con una collega rimasta ferita al Pride di Ankara.
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