ESCLUSIVO, di Davide Lerner da Ankara (Turchia)– Tesnim Nebhen, una ragazza siriana di 15 anni scappata in Turchia, è sfuggita ai campi profughi giocando a ping-pong. Per due anni era stata un’esule della guerra civile come tutti gli altri: una goccia nel mare di un milione e mezzo di minorenni fuggiti con le proprie famiglie dall’orrore siriano.
Poi il “Muhtar” di “Altınözü uno” – il “capo” del campo profughi a due passi dal confine siriano dove ha trascorso due anni – le ha fatto arrivare un tavolo, due racchette, e la pallina da ping-pong. E il vecchio talento della baby-campionessa siriana è tornato, anche grazie ai severi insegnamenti di Zaqaria, il padre allenatore.
Le giornate passate ad allenarsi sotto il sole, la fatica di eliminare quella ruggine dalle ossa accumulata in anni d’inattività, non potevano portare a un premio più insperato: diventare cittadina turca. Per concessione telefonica dello stesso Recep Tayyip Erdoğan, che ha contattato Tesnim dopo le tante vittorie riportate nei tornei del sudest del paese.
“Pronto, sai un po’ di turco? Sto per passarle il presidente”. Sembrava il più classico degli scherzi, a cui si risponde “certo, qui parla Napoleone”. E invece era tutto vero. “Erdogan mi ha chiesto quanti fossimo in famiglia, e ha detto che ci avrebbe aiutato con la cittadinanza”, racconta Tesnim.
Con Tesnim sono diventati turchi anche gli altri tre piccoli campioni del ping-pong: le sorelline Fatma e Naheed, rispettivamente di dodici e dieci anni, e il piccolo Mustafa, di otto, la madre e il padre Zakaria, vero conoscitore del calcio italiano e fan sfegatato di Paolo Maldini, insieme al primogenito diciannovenne Mohammed, che gioca a calcio e sogna di scendere in campo a Milano.
I mucchi di medaglie e le coppe che esibiscono nel dignitoso appartamento di Hatay – nella provincia contesa fra Turchia e Siria da quando Ataturk la soffiò al mandato francese a fine anni Trenta – arrivano solamente da racchetta e pallina. “Svezia, Francia, Germania, Giordania, Kuwait, Cina…”, elenca Tesnim, cercando di ricordare i paesi dove ha giocato con la casacca turca. Ma si arrende: “troppi per poterseli ricordare”.
Il padre Zaqaria si dice soddisfatto della dichiarazione di Erdogan, che poche settimane prima del fallito golpe ha promesso di concedere la cittadinanza ai profughi siriani. “Stasera voglio darvi buone notizie, fratelli e sorelle”, aveva detto il presidente a Kilis, una cittadina vicino al confine dove il numero di rifugiati supera quello degli abitanti locali.
“Sono sicuro che molti di voi vorrebbero la cittadinanza, il nostro ministero dell’Interno si sta muovendo in questo senso”. E infine: “la Turchia è anche la vostra casa”.
Le parole del presidente non hanno fatto piacere a tutti. “Erdogan vuole intervenire sull’assetto demografico del sudest della Turchia, insediando i siriani nelle zone a maggioranza curda dove l’AKP (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ndr.) arranca dal punto di vista elettorale”, ha detto a TPI Hisyah Ozsoy, vicepresidente del partito curdo HDP.
“Ha sempre usato i rifugiati in maniera strumentale: per scucire soldi all’Unione europea prima, per allargare la propria base politica di sunniti conservatori adesso”.
Si tratterebbe dunque di una spregiudicata forma di “ingegneria demografica” secondo le opposizioni turche – simili condanne sono arrivate anche da altri leader politici come il numero uno dei repubblicani Kemal Kılıçdaroğlu – un machiavellico calcolo travestito da concessione umanitaria.
Ma gli esperti invitano a restare prudenti. “A Erdogan piace sganciare bombe mediatiche quando non apprezza l’andazzo del dibattito pubblico in Turchia”, ha spiegato a TPI Michelangelo Guida, professore alla Mayis University di Istanbul. “Ma poi non ha fatto chiarezza sulle modalità di questa presunta naturalizzazione dei profughi, e con il tentativo di coup la cosa è passata in secondo piano”.
Secondo il quotidiano Hurriyet la concessione della cittadinanza avverrebbe comunque in base a criteri di merito, in una sorta di sistema di punti all’australiana. Che però qualcosa si muove lo conferma un funzionario dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati: “Nei campi i ragazzi inneggiano a Erdogan, a Gaziantep le Ong raccontano di percorsi privilegiati per le richieste di cittadinanza dei medici siriani. La gente capisce che non rientrerà a breve, e che pertanto la cittadinanza è una medicina per quello che rischia di diventare uno scenario palestinese”.
Altri segnali arrivano da PDMM (Provincial Migration Management), un organo controllato dal ministero degli Interni che segue la questione dei profughi. Nella cittadina meridionale di Adana ha istituito una commissione per stabilire chi tra i rifugiati presenti debba avere la priorità nel processo di conseguimento della cittadinanza.
Nel campo di Akcakale, vicino Urfa, il numero di cosiddetti Volrep (cioè i rifugiati che decidono di tornarsene in Siria dalla Turchia) è in deciso calo da quando si è diffusa la voce che è possibile ottenere la cittadinanza.
E ancora, ad Ankara una funzionaria dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati che si occupa di resettlement racconta che “Erdogan ha cominciato a bloccare l’uscita dal paese di profughi che hanno ottenuto il ricollocamento in posti come il Canada e gli Stati Uniti, dopo laboriose procedure di richiesta che possono durare fino a un anno”. Il motivo? “Svolgevano una professione considerata utile, o erano particolarmente qualificati”.
Insomma, la cittadinanza non è una festa per tutti. Ma sicuramente lo sarebbe per la maggior parte degli oltre tre milioni di siriani in Turchia, numero equivalente a un quinto della popolazione di un paese che si chiamava Siria.
Leggi l'articolo originale su TPI.it