Palm Beach, Florida – Manca soltanto un giorno alle elezioni e, dall’Italia, parenti, amici, e conoscenti mi scrivono, manco fossi diventato un oracolo per il solo vivere negli Stati Uniti, per farmi la fatidica domanda che incuriosisce e preoccupa parecchio in Europa: “Chi vincerà le elezioni americane?”.
La risposta è più complessa del previsto. Eppure potrebbe sorprendervi. Ormai è un dato di fatto che i sondaggi elettorali negli Stati Uniti sono diventati poco affidabili e, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni per aggiustare il tiro e renderli più credibili, rimangono un termometro altalenante che prova a fotografare qualcosa di imponderabile: il voto delle persone, fatto di idee, convinzioni, pregiudizi, simpatie, antipatie, notizie vere e altre non proprio vere.
Secondo i sondaggi più recenti, siamo di fronte a un’impasse sia a livello nazionale che negli stati indecisi che stabiliranno il vincitore finale. Un 49% contro un 49% a livello generale, mentre nei sette stati indecisi vediamo un sorprendente vantaggio di Kamala Harris in luoghi come la Carolina del Nord e la Georgia, bastioni storicamente repubblicani, mentre Donald Trump è davanti in uno stato come l’Arizona, dove il tema dell’immigrazione pesa più di ogni altra cosa. Qui, la popolazione latina ha smesso da un po’ di votare democratico solo per il fatto di essere di origine ispanica.
Tolti il Nevada e il Wisconsin, dove Harris sembra avere un vantaggio chiaro, a meno di sorprese, rimangono il Michigan e la Pennsylvania, in cui i due candidati sono in totale parità. E dove tutto può succedere.
La popolazione araba del Michigan ha, in gran parte, voltato le spalle all’attuale vicepresidente a causa della guerra in Gaza, un fattore non da poco che potrebbe costare caro in termini di voti per Harris. Allo stesso tempo, gli arabi del Michigan temono che con Trump le cose andrebbero persino peggio, quindi molti hanno deciso di non votare o di votare per il Green Party, come forma di protesta. E in Michigan, c’è un vecchio detto che dice: un voto di protesta è un voto regalato ai repubblicani.
In Pennsylvania – lo stato che molti dicono sarà quello cruciale che, sul filo di lana, determinerà chi giurerà sulla bibbia il prossimo 20 gennaio davanti al Campidoglio – gli umori dei residenti sono così altalenanti che è difficile capire cosa succederà. Potrebbe persino stravincere Trump, sebbene i democratici storicamente abbiano sempre avuto grandi successi nello stato di Rocky Balboa.
Insomma: è un’elezione con i nervi a fior di pelle. Sull’orlo di una crisi isterica. E poi arriva l’Iowa, che non è uno stato in bilico, anzi, da sempre è rosso repubblicano, dove un recente sondaggio pubblicato dall’affidabile Ann Selzer e dai pollers di Des Moines mostra la Harris in vantaggio di tre punti su Trump. Una cosa che, se confermata nei seggi, sarebbe assolutamente incredibile.
E qui, capitemi bene, emerge una crepa in questo muro di parità nei sondaggi, una crepa che fa sorgere un legittimo dubbio. Se l’Iowa è così, chi esclude che possano esserci altre sorprese in altri stati, dove attualmente si ha la certezza che vinca un partito o l’altro?
Se nel 2016 i sondaggi avevano previsto un trionfo di Hillary Clinton, per poi toppare clamorosamente, e nel 2020 i sondaggi vedevano Joe Biden avanti di 15 punti su Trump, che poi perse in maniera risicata, nel 2024 potremmo vedere qualcosa di simile al 2012 fra Barack Obama e Mitt Romney: un testa a testa poi stravinto da Obama. Piccola postilla: Obama era Obama. E Romney non era Trump. Tuttavia, il succo della questione è: queste elezioni potrebbero convertirsi in un’ondata azzurra, anche in stati impensabili. Una vittoria netta della Harris, spinta dagli elettori moderati, dalla popolazione femminile (anche quella repubblicana) e dalla famosa Gen Z, i più giovani, alla loro prima elezione, che non risponderebbero a un sondaggio neanche se venissero pagati migliaia di dollari.
C’è questa ipotesi, che sta prendendo piede fra i giornalisti negli Stati Uniti e nella quale, segretamente, spera anche la campagna democratica: un’elezione così tirata potrebbe convertirsi in un risultato chiaro.
I sondaggi, che hanno aggiustato il tiro, calibrato il peso, ponderato i valori degli elettori, potrebbero aver ignorato il senso comune della gente, quella maggioranza silenziosa che, forse, dopo quasi dieci anni di Trump, si è stancata della narrativa tossica del tycoon, delle sue simpatie per tiranni ed estremisti, e delle sue esternazioni sempre più folli. Solo in questo weekend, per la cronaca, ha detto che non ci vedrebbe nulla di male se qualcuno sparasse ai giornalisti. E nei giorni scorsi ha minacciato di fucilare l’ex repubblicana Liz Cheney e detto alle donne che le proteggerà, che lo vogliano o meno.
Resta anche l’altro lato della medaglia, l’altra possibilità: una vittoria netta di Trump negli stati indecisi, frutto di una serie di fattori, da chi vuole il pugno duro sull’immigrazione, a un’economia più robusta e alla fine delle guerre. Un’ondata rossa che ci consegnerebbe una seconda presidenza Trump. E che dimostrerebbe un’amara realtà: gli Stati Uniti non sono ancora un Paese pronto per una donna presidente, figurarsi se afroamericana e figlia di immigrati. Meglio un anziano che ha promesso di essere un dittatore dal primo giorno di presidenza.
La verità? Ci vorrebbe l’abilità di oracolo per capire cosa succederà veramente. Come andrà a finire dopo questo martedì. In un’elezione dove i sondaggi hanno fatto più confusione che altro, dove la popolazione è più polarizzata che mai, dove c’è troppa informazione, ma poca di qualità, forse il risultato sarà più chiaro di quello che ci si aspetta. Oppure sarà talmente incerto, come dicono i sondaggi, che le settimane che ci attendono dopo il cinque di novembre saranno di un oscuro, di un brutto, che potrebbero diventare uno dei periodi più neri della storia americana, fra possibili accuse di frodi elettorali e chi proverà a rubare le elezioni, in un modo o nell’altro, con un’intelligenza e una preparazione che mancarono quattro anni fa.
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