Cosa succede se Trump contesta il voto
Il 3 novembre si vota per eleggere il nuovo presidente degli Stati Uniti, ma la possibilità che Trump non riconosca il risultato delle elezioni, e perfino che faccia in modo di rendere il processo di voto il più accidentato possibile al fine di contestarne la validità, è temuta da mesi dagli analisti e dagli strateghi elettorali della campagna del candidato del Partito Democratico, Joe Biden.
Una notte elettorale senza risultato
Già a maggio di quest’anno, un articolo sul New York Times raccontava di un gruppo di funzionari del Partito Democratico che considerava proprio scenari di questo tipo. Tra le ipotesi c’erano: un’indagine aperta contro Joe Biden una settimana prima delle elezioni dal procuratore generale William Barr, noto e spregiudicato alleato del presidente; una dichiarazione di stato di emergenza nelle città principali degli stati più contesi, come Milwaukee e Detroit, che impedisca l’apertura dei seggi elettorali o militarizzi le strade allo scopo di tenere lontani gli elettori; un esplicito rifiuto di Trump di lasciare la Casa Bianca a seguito di una vittoria risicata di Biden, magari ottenuta rimontando lo svantaggio iniziale grazie allo scrutinio dei voti per posta.
La pandemia complica le cose: sia perché, come immaginato dai funzionari Democratici, dà a Trump una scusa per applicare eventuali misure di emergenza; sia perché aumenta la possibilità che gli americani decidano di votare via posta, allungando di molto le operazioni di conteggio del voto che già saranno rese laboriose dalle norme anti-COVID. Per questo, è molto probabile che il 3 novembre la notte elettorale passerà senza che sia chiaro chi ha vinto. Il conteggio finale potrebbe ritardare perfino di settimane, e ciò aumenterà la confusione e la possibilità che le elezioni siano contestate, specie se il risultato non sarà netto (o se Trump dovesse risultare in vantaggio la notte del voto, per poi finire rimontato qualche giorno dopo). In caso di una vittoria schiacciante di uno dei due candidati, invece, sarebbe quasi impossibile mettere in dubbio il voto.
Come l’amministrazione Trump può approfittarne
L’articolo che meglio di tutti spiega in che modo l’amministrazione Trump potrebbe approfittare della confusione durante e dopo le elezioni – e come potrebbe amplificarla – è uscito qualche giorno fa sull’Atlantic e l’ha scritto il giornalista politico Barton Gellman, tre volte premio Pulitzer. È lunghissimo, molto dettagliato e argomenta con interviste e dati alcune ipotesi preoccupanti.
Anzitutto, Gellman ricorda che la Costituzione americana non garantisce un trasferimento pacifico dei poteri ma piuttosto lo presuppone, come dice l’esperto legale Lawrence Douglas. Questo significa che, affinché tutto vada bene, è necessario che a un certo punto lo sconfitto si riconosca come tale.
Voto contestato: i precedenti storici
Nell’ultimo caso di elezioni contestate, quelle tra Al Gore e George W. Bush nel 2000, al contrario di come molti ricordano non fu la Corte Suprema a decidere il risultato del voto. La Corte Suprema decise sì il risultato del conteggio in Florida, ma Gore avrebbe potuto continuare la sua battaglia legale: il giorno dopo la sentenza della Corte decise però di rinunciare, “in nome della nostra unità come popolo e della forza della nostra democrazia”. Questo è il discorso che Trump potrebbe non fare mai.
Ma bisogna andare ancora indietro nel tempo per trovare le elezioni più contestate della storia: quelle del 1876, nota per essere stata il catalizzatore che pose termine all’Era della Ricostruzione. A seguito di un problematico e dibattuto processo post-elettorale, il candidato del Partito Repubblicano Rutherford Hayes sconfisse sul filo del rasoio l’esponente del Partito Democratico Samuel Tilden.
Dopo che il presidente uscente Ulysses S. Grant rifiutò di cercare un terzo mandato, il membro del Congresso James Blaine emerse inizialmente come la figura di spicco per la Nomination repubblicana; tuttavia non fu in grado di conquistare la maggioranza alla Convention nazionale la quale si accordò sul Governatore dell’Ohio Hayes come scelta di compromesso. La Convention nazionale democratica nominò invece il Governatore di New York Tilden già al 2º scrutinio. I risultati rimangono comunque tra i più contestati di sempre, anche se non viene messo in dubbio che Tilden abbia superato Hayes nel voto popolare; dopo un primo conteggio il 1° difatti conquistò 184 Grandi elettori del Collegio elettorale a fronte dei 165 assegnati a Hayes, con 20 voti provenienti da quattro Stati federati disputati. Il risultato non garantiva quindi l’elezione di nessuno dei due, essendo all’epoca il magic number pari a 185.
Nel caso della Florida, della Louisiana e della Carolina del Sud – gli ultimi stati sudisti ancora governati dai Carpetbaggers – ciascuna delle due parti in causa dichiarò che il suo candidato aveva ottenuto la vittoria, mentre in Oregon un “Grande elettore” fu sostituito dopo essere stato dichiarato illegale in quanto un “funzionario eletto o nominato”. La questione riguardante chi avrebbe dovuto essere premiato con questi suffragi divenne ben presto la fonte delle massicce e continue polemiche.
Dopo la minaccia Democratica di ostruzionismo al momento del conteggio formale e di lasciare pertanto il paese senza un presidente alla scadenza del mandato della presidenza di Ulysses S. Grant, si giunse ad un “Compromesso” per poter risolvere positivamente la controversia: la carica ad Hayes in cambio del ritiro definitivo dell’esercito federale dal Sud. Ci si decise pertanto a stipulare un accordo informale, il Compromesso del 1877, per cui la commissione elettorale assegnò a Hayes tutti e 20 i voti rimasti in palio, divenuti fondamentali per l’esito delle elezioni; la scelta non sarà però “super partes”: gli otto commissari repubblicani si schiereranno contro i sette democratici.
In cambio dell’accettazione da parte dei Democratici dell’elezione del candidato Repubblicano, si accolse l’invito a ritirare definitivamente le truppe federali dagli Stati Uniti meridionali, ponendo così fine alla Ricostruzione. Il potere negli Stati del Sud venne efficacemente ceduto ai cosiddetti “Redeemers”, che procedettero a privare del loro diritto di voto appena acquisito la stragrande maggioranza dei cittadini afroamericani nel corso degli anni immediatamente successivi. Le conseguenze di quel compromesso si sentono ancora oggi.
Questa è una delle cinque volte (assieme alle elezioni presidenziali del 1824, alle elezioni presidenziali del 1888, alle elezioni presidenziali del 2000 e alle elezioni presidenziali del 2016) in cui la persona che ha conquistato più voti popolari poi non ha vinto nei fatti e l’unica in cui il vincitore del voto popolare ha ricevuto la maggioranza assoluta del voto popolare.
Quel limbo tra le elezioni e l’insediamento
Gellman scrive che il Partito Repubblicano potrebbe intralciare le operazioni di voto. Quelle di quest’anno sono le prime elezioni in 40 anni in cui i Repubblicani non devono avere l’autorizzazione di un giudice per fare “operazioni di sicurezza del voto” ai seggi. L’autorizzazione di un giudice era obbligatoria dal 1981, quando ci furono polemiche perché alle elezioni per il governatore del New Jersey i Repubblicani cercarono di intimidire il voto delle minoranze assumendo poliziotti fuori servizio per fare la guardia ai seggi.
Nel 2018, però, un giudice ha ritenuto che l’obbligo non fosse più necessario, e quest’anno il Partito Repubblicano ha messo insieme 50 mila volontari in 15 stati contesi per controllare la sicurezza ai seggi. Anche senza usare tecniche intimidatorie, questi volontari potrebbero contestare il voto di chiunque sembri loro “sospetto”, rallentando o facendo impantanare le operazioni di voto. C’è anche la possibilità che organizzazioni di estremisti provochino violenze ai seggi, come ha fatto il gruppo Boogaloo durante le proteste di Black Lives Matter.
Poi c’è quello che Gellman chiama l’Interregno, cioè i 79 giorni che trascorrono tra le elezioni e l’insediamento del nuovo presidente. La Costituzione prevede in quei giorni tutta una serie di passaggi e votazioni formali che di solito contano poco, perché il vincitore è già chiaro a tutti fin dalla notte elettorale e lo sconfitto si è congratulato con lui. Ma se il voto dovesse essere incerto, o se lo sconfitto non accettasse il risultato, le formalità potrebbero diventare molto importanti.
Tra le tante ipotesi possibili, Gellman si concentra sul fatto che la Costituzione americana non prevede esplicitamente che sia il voto popolare a determinare i grandi elettori che ciascuno stato seleziona per far parte del collegio elettorale, cioè del gruppo di persone che poi, effettivamente, elegge il presidente. La Costituzione dice che ciascuno stato può nominare i grandi elettori del collegio in base alle direttive del Congresso dello stato stesso.
Per secoli questo potere è stato lasciato al voto popolare, ma se le elezioni di quest’anno dovessero essere molto contestate, se il risultato definitivo tardasse ad arrivare e nel frattempo montasse una campagna che denuncia brogli e irregolarità durante il voto, non sarebbe impossibile che alcuni stati guidati dai Repubblicani possano decidere di dichiarare non valido il voto popolare, e di selezionare per il collegio elettorale grandi elettori di loro nomina. Gellman ha parlato con tre alti esponenti del Partito Repubblicano in Pennsylvania che gli hanno detto che l’ipotesi è in discussione. I Repubblicani controllano Camera e Senato in diversi stati in bilico.
Gellman ipotizza che il 14 dicembre il Collegio elettorale si possa formare senza che ci sia un consenso comune sulla sua composizione, e che si creino perfino due Collegi elettorali con due diverse maggioranze che votano in maniera differente, una per Biden e una per Trump.
A quel punto spetterebbe al Congresso, che si riunisce il 6 gennaio del 2021, dirimere la questione. Ma la Costituzione e le leggi ordinarie sono così fumose o complicate che si apre un “labirinto” di ipotesi, per un caso a cui nessuno aveva mai davvero pensato. Per fare un esempio, in una delle tante possibili alternative la speaker della Camera Nancy Pelosi diventa presidente pro-tempore. La soluzione più probabile sarebbe uno scontro piuttosto brutale tra i poteri costituzionali, in cui alla fine il partito che domina il Senato conquista la presidenza.
La cosa migliore da fare per gli elettori americani, secondo Gellman, è evitare il voto via posta e andare a votare di persona, per fare in modo che ci sia un risultato chiaro e immediato fin dalla notte elettorale. Paradossalmente anche Trump dice la stessa cosa, ma per altre ragioni: spera che molti elettori spaventati dalla pandemia non vadano a votare, contando sul fatto che storicamente la bassa affluenza ha favorito i Repubblicani.
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Qui i reportage sul campo di TPI dell’inviato negli Usa Pietro Guastamacchia:
1. Viaggio nel Bronx: “Io, repubblicano italo-irlandese, voglio sconfiggere Ocasio-Cortez e il suo socialismo”
2. “La polizia ci spara addosso, l’America capitalista ci sfrutta. Ora noi neri spacchiamo tutto”: reportage da Philadelphia
3. Viaggio in Pennsylvania: “Qui ci si gioca tutto. Se Biden vince, sarà presidente”