Il 7 giugno 2015 in Turchia si sono tenute le elezioni per il rinnovo della Grande assemblea nazionale, il parlamento turco. Il parlamento è formato da una sola Camera ed è composto da 550 deputati, eletti ogni quattro anni con un sistema proporzionale.
Oltre 46 milioni di turchi sono andati a votare e il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan è arrivato primo per la quarta volta consecutiva, perdendo tuttavia la maggioranza assoluta in parlamento. Il Partito democratico del popolo (Hdp) ha superato la soglia del 10 per cento, raggiungendo così un risultato storico: una formazione filo-curda entra per la prima volta in parlamento.
Selahattin Demirtas, leader dell’Hdp, secondo il Courrier international, è l’uomo che può cambiare il Paese.
1. Il progetto di Erdoğan
Secondo le proiezioni ufficiali, l’Akp avrebbe ottenuto 258 seggi (con il 41 per cento dei voti), rimanendo al di sotto della soglia dei 276 seggi che sarebbe servita per formare un governo monocolore.
L’Akp ambiva a raggiungere i 330 seggi perché ciò avrebbe significato per Erdoğan poter modificare la costituzione ricorrendo direttamente a un referendum. L’obbiettivo era quello di trasformare la Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Se l’Akp avesse addirittura superato i 367 seggi, avrebbe potuto apportare modifiche costituzionali anche senza referendum.
Nei giorni precedenti alle elezioni, più che per eleggere i rappresentanti della Grande assemblea nazionale, il turno elettorale sembrava diventato un referendum pro o contro Erdoğan. La popolarità del presidente è in calo? È la fine di un’era o il via libera al presidenzialismo? L’Akp doveva riuscire a guadagnare almeno i tre quinti dei seggi per dare un segnale di forza.
In questa prospettiva, Erdoğan incassa una battuta d’arresto conquistando “solo” 258 seggi. Ciò complica il cammino verso la centralizzazione del potere nelle sue mani e – come hanno commentato i partiti di opposizione – rappresenta “una vittoria della democrazia”.
2. Le opposizioni
Sulla costa mediterranea occidentale restano salde le roccaforti del partito kemalista di Kemal Kılıçdaroğlu (Chp), che adesso con il 25 per cento dei consensi ottiene 132 seggi in parlamento. Ottimo risultato del partito nazionalista (Mhp) di Devlet Bahçeli, che ha raccolto il 16 per cento dei voti, ottenendo 81 seggi, e potrebbe allearsi con l’Akp per sostenere Erdoğan.
Nel cuore dell’Anatolia resta forte il consenso per il presidente, ma nella parte orientale, impoverita dalla crisi in Siria, Erdoğan ha pagato caro l’atteggiamento assunto nella città siriana di Kobane.
Erdoğan è al governo da più di dieci anni e il suo elettorato lo associa automaticamente al successo economico della Turchia: istruzione, sanità e trasporti sono effettivamente migliorati.
Ha ottenuto maggiori consensi soprattutto tra i conservatori e i musulmani osservanti, ma con la sua politica autoritaria e la retorica religiosa ha preoccupato le componenti che rappresentano il potere laico e secolare di tradizione kemalista.
3. Il peso del passato
Il 29 ottobre 1923 fu proclamata la Repubblica e Mustafa Kemal fu eletto presidente. Avviò una politica di radicali riforme miranti alla modernizzazione del Paese, fondata in primo luogo sulla laicizzazione. Il 3 marzo 1924 fu abolito il Califfato ed esiliata la famiglia ottomana. Seguirono la soppressione dei tribunali religiosi e delle scuole coraniche, sostituite da una rete sempre più capillare ed efficiente di scuole elementari statali, primo livello di un sistema educativo fondato sul patriottismo e il laicismo.
Furono messi al bando gli ordini dei dervisci, forma popolare del misticismo islamico che godevano di ampio seguito, e vennero eliminati, nella Costituzione, i riferimenti all’Islam quale religione di Stato.
Il 17 febbraio 1926 fu introdotto un codice civile che riconosceva i diritti civili delle donne. Nel 1926 fu introdotto anche un codice penale. Nel 1928 fu introdotto l’alfabeto romano e nel 1930 fu concesso il voto alle donne per le elezioni locali.
Il progetto di Mustafa Kemal era quello di porre fine alle funzioni politiche dell’Islam nella legislazione e nella giustizia turca: alla Turchia serviva una nuova identità per garantire la propria sicurezza.
Una citazione di Mustafa Kemal rivela tutta l’essenza del suo programma di riforme: “La gente non civilizzata è condannata a rimanere sotto la dominazione di quelli che sono civilizzati. La civilizzazione è l’Occidente, il mondo moderno, di cui la Turchia deve far parte se vuole sopravvivere”.
4. Il presente
Il confronto fra Erdoğan e Mustafa Kemal è anacronistico, ma ci può far intuire perché le accuse ricorrenti che sono state rivolte all’attuale presidente anche in Europa siano d’essere troppo autoritario e di voler riportare l’Islam in politica.
All’interno dei confini nazionali Erdoğan ha perseguito una politica autoritaria con le eccessive violenze sui manifestanti di Gezi Park, la messa al bando di Twitter e YouTube in nome della sicurezza nazionale, le restrizioni sugli alcolici e la crescente intolleranza verso giornali e giornalisti.
Al di fuori dei confini, come durante le trattative per portare a casa i diplomatici turchi rapiti dall’Isis e l’assedio di Kobane, si è dimostrato un freddo calcolatore, capace di scendere a compromessi pur di non indebolire il ruolo regionale della Turchia.
Sulle colonne del sito di informazione Al Monitor, Cengiz Candar si chiede se queste elezioni possano significare la fine dell’era Erdoğan, mentre Semih Idiz sostiene che a cambiare potrebbe essere la politica estera turca.
5. Le relazioni con l’Unione Europea
Ciò che probabilmente non cambierà è il gelo nelle relazioni tra la Turchia e l’Unione europea, che avrebbe quanto mai bisogno di collaborare con un alleato così importante per affrontare le delicate questioni regionali. Tra queste, non solo la guerra civile in Siria, Libia e Yemen, l’avanzata dell’Isis e la guerra fredda tra Arabia Saudita e Iran, ma anche la crisi in Ucraina, la questione della Crimea e quella di Cipro. L’Ue appare quanto mai disunita e inerme su tutti questi fronti.
Nel 2010 i negoziati con Bruxelles si sono bloccati e la Turchia ha intensificato i suoi sforzi per incrementare il suo potere a Oriente, finanziando direttamente gruppi di combattenti sunniti, come quelli impegnati contro il regime di Assad nella guerra civile siriana.
Dopo la primavera araba, infatti, la politica estera di Ankara si è basata sempre di più su una visione islamista con forti inclinazioni sunnite.
Fino ad allora la Turchia sembrava forgiare una politica estera lungimirante basata non solo sulla “prospettiva europea”, come candidato per l’adesione all’Unione europea, ma anche sullo sviluppo di legami con il mondo islamico, rappresentando un modello per il mondo arabo e dimostrando che la democrazia laica e l’Islam sono compatibili.
6. L’importanza della Turchia
A prescindere dall’adesione o meno all’Unione europea, la posizione strategica della Turchia dal punto di vista geopolitico è innegabile: ponte tra Europa, Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale. Così come la posizione strategica della Turchia dal punto di vista economico e finanziario: è un Paese di transito di gas e petrolio proveniente dall’Asia centrale. Senza intrattenere buoni rapporti con la Turchia, è minato il rapporto dell’Ue con il mondo musulmano, considerando sia le relazioni internazionali sia quelle con le vaste comunità di immigrati nei Paesi europei.
Il processo di democratizzazione della Turchia potrebbe imporsi come modello di compatibilità tra Islam e democrazia, anche alla luce dell’importanza dell’immigrazione turca per il calo demografico che sta investendo i Paesi europei.
7. Problemi e pregiudizi
Tuttavia, ad averla vinta – almeno fino a questo momento – sono stati gli argomenti contrari all’adesione, che hanno portato la Turchia sempre più lontana dall’Europa. Tra questi ostacoli, i principali sono: il riconoscimento dei diritti umani in Turchia, considerato al di sotto degli standard europei; la questione di Cipro; il fatto che la Turchia non riconosca il genocidio armeno e che sia un Paese musulmano (questione dell’identità europea).
Il presidente turco ha dichiarato, con tono di sfida, che se entro il 2023, a cento anni dalla nascita della Repubblica, la Turchia non sarà entrata a far parte dell’Unione europea, sarà la Turchia stessa a dire basta, ponendo fine a questo lungo stallo. Forse però, purtroppo, il tempo sta già finendo, a scapito della Turchia e dell’Europa.
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