Non ci saranno sorprese, a Mosca, al termine del voto per le elezioni presidenziali, la sera del 18 marzo.
I dubbi riguardano solo l’affluenza e il distacco tra Vladimir Putin e il secondo arrivato (probabilmente il candidato del Partito Comunista Russo Pavel Grudinin), ma il risultato complessivo, ovvero la vittoria del Presidente uscente al primo turno, è già scritto e “blindato”.
La possibilità di brogli è abbastanza limitata e rasenterà il livello fisiologico di una normale democrazia. Più che il risultato in sé, ad essere contestato semmai sarà il modo in cui verrà ottenuto: il blocco della candidatura del noto oppositore Alexei Navalny, l’assenza di par condicio nei media, le pressioni politiche sui dipendenti pubblici. Tutte questioni reali, che rientreranno nelle tradizionali polemiche sulla tornata elettorale russa.
Ma limitarsi a queste significherebbe trascurare il dato concreto, e assolutamente verificabile, che traspare dai numeri: Putin gode di un consenso vasto, trasversale e indiscutibile.
Forse un po’ appannato nelle generazioni più giovani, quelle che non hanno mai conosciuto altri sistemi al potere (e che presenteranno le maggiori incognite a livello di astensionismo), ma ben saldo tra chi le ha precedute, soprattutto per il ricordo dell’era dell’ex presidente Boris Elcin e per la scarsa fiducia in chi si oppone a Putin sterilmente da anni.
Dal caso Skripal al Russiagate, le accuse occidentali sono solo echi lontani a Mosca, e se avranno una conseguenza sarà quella di rafforzare l’immagine (e il tributo elettorale) del Presidente. L’accerchiamento che i russi subiscono, o che sentono come tale, ha da secoli sempre lo stesso effetto: irrobustire la coesione nazionale e il sostegno al Leader, chiunque esso sia (Zar, Segretario o Presidente).
Gli sfidanti di oggi, sette, coprono l’intero spettro ideologico, dalla destra reazionaria di Vladimir Žirinovskij ai liberali filoeuropei di Grigorij Javlinskij, dai comunisti nostalgici di Pavel Grudinin ai fautori del libero mercato di Boris Titov.
C’è pure una donna, Ksenija Sobčak (l’unica della competizione). Nota conduttrice televisiva e figlia di un ex protettore di Putin, non è riuscita a convincere i seguaci di Navalny della sua estraneità al sistema. In compenso, è riuscita a farsi detestare da larghe fette dell’opinione pubblica, anche per via di posizioni coraggiose ma fortemente impopolari come quella di un referendum per la restituzione della Crimea all’Ucraina.
Insomma, ci sarebbero candidati per tutti i gusti, ma nessuno di questi riesce a risultare sufficientemente credibile o alternativo al sistema putiniano. Basti vedere l’impopolarità di certe proposte politiche, o la loro infattibilità, o peggio ancora i confronti televisivi a cui i candidati si sono prestati in questa campagna.
Uno show impietoso, che non ha fatto altro che favorire il distacco percepito tra la “bassa” politica e quella “alta” di Putin. Un uomo impegnato nella difesa della Russia ai vertici politici globali, difficilmente trascinabile in beghe e spettacolini di bassa lega. A cui infatti, sapientemente, non ha mai partecipato.
Anche questo conterà nelle cabine elettorali, in Russia.
Da una parte la continuità, la sicurezza, la difesa delle posizioni e del prestigio russo nel mondo; dall’altra il salto nel buio di proposte non sempre chiare, mai sperimentate, avanzate da candidati senza alcuna esperienza governativa o quasi.
Non ci sarà da stupirsi se i russi sceglieranno in larga maggioranza (tra il 60 e il 70 per ceto, forse addirittura oltre) la prima opzione. Resta da vedere solo in quanti effettivamente si recheranno alle urne, visto lo scarso appeal mediatico di questa competizione.
Articolo di Pietro Figuera, coordinatore del progetto Russia 2018