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    Elezioni in Regno Unito: laburisti favoriti ma l’alleanza con gli Usa non cambierà

    Il leader laburista. Keir Starmer. Credit: AP

    Mentre nell’Ue soffia il vento della destra, alle elezioni britanniche del 4 luglio si prevede un successo dei laburisti. Pronti a tornare a Downing Street dopo 14 anni di governo Tories. Ma una cosa non cambierà: l’alleanza con gli Usa resta solida più che mai

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 28 Giu. 2024 alle 14:32

    In un anno ricco di appuntamenti elettorali, con le elezioni europee appena alle spalle, le francesi alle porte e quelle americane in autunno, il prossimo 4 luglio sarà il turno del Regno Unito. 

    A Downing Street l’inquilino è conservatore oramai dal 2010, quando David Cameron prese il posto del laburista Gordon Brown. 

    Cameron è stato il più longevo fra i premier britannici che si sono succeduti negli ultimi tormentati anni. Rieletto nel 2015, fu costretto a farsi da parte nel famoso giugno 2016 in seguito alla sconfitta al referendum sulla Brexit. Ed è tornato alla vita pubblica di recente, richiamato come ministro degli Esteri dall’attuale premier Rishi Sunak, a sua volta arrivato alla guida del governo dopo i trienni di Theresa May e Boris Johnson e dopo la brevissima parentesi di Lizz Truss, che nell’ottobre 2022 ha dato le dimissioni dopo solo 49 giorni dal suo insediamento (il governo più breve della storia del Regno Unito).

    Alle imminenti elezioni appare scontata la vittoria dei laburisti, che godono di un altissimo margine di vantaggio nei sondaggi.

    Panoramica
    Sono passati esattamente cento anni dalla prima volata dei Labour a Downing Street con il premier Ramsay MacDonald. Oggi il partito, con il suo leader Keir Starmer, si sta avvicinando all’appuntamento alle urne con il vento in poppa.

    Da quell’ormai lontano 2010 sono successe molte cose. Nel 2014 la Scozia ha votato per rimanere nel Regno Unito, nel 2016 – come già ricordato – il Regno Unito ha deciso, seppure per un pugno di voti, di abbandonare l’Unione europea. Poi sono arrivati la pandemia di Covid-19, la guerra russo-ucraina e il decennale conflitto in Medio Oriente, giunto alla triste e nota escalation. Si arriva così alle elezioni di oggi, con i laburisti di nuovo favoriti per insediarsi al governo.

    La rincorsa dei Tories deve fare i conti, a destra, con quella che è più di una mina vagante: il Reform Uk di Nigel Farage, l’uomo che più di tutti ha convinto otto anni fa i britannici a tagliare i ponti con l’Ue e che adesso sgomita per lanciare un’Opa su quella parte di elettorato per diventare nei prossimi anni il primo partito dell’opposizione. Farage punta a conquistare il voto di quei conservatori delusi che mai potrebbero votare laburista, mettendo i Tories davanti alla possibilità di una epocale sconfitta. 

    Tra gli antagonisti in corsa ci sono ovviamente anche i Lib-Dem, qualche anno fa azionisti nel primo governo di Cameron, e i Verdi, che difenderanno i pochi seggi sui quali siedono a Westminster. 

    Ma, a proposito di outsider, i fari non vanno certo spenti nelle periferie. In Scozia cerca la riconferma l’Snp, che fa della secessione la sua ragion d’essere, specie dopo la Brexit, vista la forte inclinazione europeista oltre il Vallo di Adriano. Negli ultimi anni i nazionalisti scozzesi sono stati capaci di portare la maggioranza separatista sia nel governo locale che a Londra, dove da ultimo hanno eletto 48 parlamentari sui 59 che ha a disposizione la Scozia. Sarà anche questa una grande sfida per i Labour: convincere Edimburgo che il Regno deve rimanere unito. 

    In Galles, nazione storicamente laburista, la spinta indipendentista sembra soffiare senza troppa forza, mentre lo stesso non si può dire nel Nord Irlanda, dove il partito indipendentista Sinn Féin, che vuole riunire tutta l’isola sotto la confinante Repubblica, è fortemente cresciuto.

    Dopo essere diventato il primo partito nell’Eire, lo Sinn Féin è diventato il più votato anche nel parlamento di Belfast, governando in coabitazione con il Dup, partito unionista britannico secondo il dettame del Good Friday Agreement che pose fine alla guerra civile alla fine degli anni Novanta.

    Gli indipendentisti irlandesi detengono anche ben 7 seggi sui 18 disponibili alla Camera dei Comuni a Londra, dove adottano la pratica dell’astensionismo, lasciando gli scranni vuoti per rivendicare il fatto di non riconoscere l’autorità britannica. 

    A prescindere dall’esito delle elezioni del 4 luglio, è certo quindi che le forze “periferiche”, nella migliore delle ipotesi, spingeranno per avere sempre più forza e autonomia rispetto al governo londinese. 

    Posizionamento
    I sudditi delle quattro nazioni del Regno Unito forse non leggeranno in maniera approfondita i programmi dei partiti, ma andando alle urne si chiederanno in primis se, dopo quattordici anni sotto la guida dei Tories, le loro condizioni – ma più in generale quelle del Paese – siano cambiate in meglio o in peggio. 

    I Labour si sono opposti alla Brexit, ma – dovendo rispettare l’esito del referendum – propongono di rivedere l’insieme di relazioni e regolamenti con l’Ue concordati dall’allora premier Johnson nel 2020, uniformandosi su diverse questioni per facilitare flussi economici e sviluppo.

    Di certo sono grandi le sfide che attendono una delle prime economie del pianeta, oltre che potenza militare e azionista rilevante nelle sedi internazionali che contano. Ma qualunque sarà il verdetto delle urne, il posizionamento geopolitico del Regno Unito non cambierà: Londra continuerà a rappresentare il “piede americano in Europa” (nonostante la Brexit). E anche i laburisti proseguiranno nel pieno sostegno all’Ucraina, come sottolineato da David Lammy e John Healey, ministri-ombra di Esteri e Difesa ora pronti per far parte del Governo Starmer. 

    Se con Jeremy Corbyn i Labour erano in qualche modo considerati “meno solidi” sul piano della difesa e dell’allineamento sulle questioni internazionali, con Starmer alla guida il partito non sembra mostrare nessuna crepa rispetto all’impegno in prima linea sul versante atlantista. 

    Tuttavia ci sono anche altri fattori da prendere in considerazione, a cominciare dalle elezioni americane che si terranno in autunno, dove la sfida sarà tra Joe Biden e Donald Trump. Farage fa chiaramente il tifo per un ritorno alla Casa Bianca di Trump, prevedendo che una sua elezione possa portare il presidente russo Vladimir Putin a sedersi a un tavolo per definire una trattativa di pace con Kiev (probabilmente – ipotizza Farage – senza escludere di mettere in discussione porzioni di territorio ucraino, purché termini il conflitto che, a suo parere, la Russia sarebbe in grado di proseguire per anni). 

    Londra è un alleato della prima ora degli americani, a cui cedette il testimone di potenza mondiale dominante dopo il secondo conflitto mondiale. Stati Uniti e Regno Unito sono accomunati dalla lingua e dalla storia, dalla speciale partnership militare, oltre che dall’alleanza dei “Five Eyes” che comprende i servizi segreti con i Paesi dell’anglosfera. No, non sarà un nuovo inquilino a Downing Street a farne virare il posizionamento. 

    Da quando Cameron lasciò nel 2016, si sono succeduti ben quattro premier, così in qualche modo “italianizzando” la scena politica britannica. Adesso i laburisti prendono la rincorsa per conquistare la maggioranza dei seggi, mentre i Tories tenteranno di limitare i danni. Poi ci saranno Farage che cercherà la sorpresa, l’Snp che difenderà le ragioni indipendentiste, e la partita aperta del Nord Irlanda, dove unionisti e separatisti non si faranno sconti a vicenda. 

    La sera del 4 luglio, mentre gli americani celebreranno l’indipendenza proprio dai britannici, sapremo chi sarà a guidare quello che oggi è l’alleato numero uno di Washington.

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