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    Usa 2024: l’identikit dell’indeciso alle elezioni più importanti del mondo

    Credit: AGF

    Gli elettori chiamati a scegliere tra Donald Trump e Kamala Harris sanno già come votare. Ma non è ancora sicuro se andranno o meno ai seggi. Ecco chi sono e come possono cambiare la corsa alla Casa bianca

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 18 Ott. 2024 alle 16:23

    Da una parte la rabbia di chi vuole che l’America torni «di nuovo grande», dall’altra la «gioia» come leit motiv della campagna elettorale. A poche settimane dal voto negli Stati Uniti, il tono usato da Donald Trump e Kamala Harris, e gli scenari evocati dai due candidati alla presidenza, non potrebbero essere più diversi. Ma in alcuni casi queste differenze sembrano svanire.

    Nonostante la distanza su questioni come il cambiamento climatico e il diritto all’aborto, sorprende quanti siano i temi su cui i due candidati hanno finito per convergere.

    Sull’immigrazione l’amministrazione Biden si è avvicinata alla linea dura del suo predecessore, al punto che Harris intende continuare la costruzione del controverso muro al confine con il Messico, a lungo cavallo di battaglia di Trump. Un compromesso che va ad aggiungersi ad altre giravolte, da quella sulla riforma sanitaria “Medicare for all”, sostenuta durante le ormai lontane primarie del 2020, a quella sul divieto all’estrazione di petrolio e gas tramite “fracking”. A entrambe le proposte, sostenute in passato assieme all’ala sinistra del partito, ora l’ex procuratrice della California si dice contraria, nel tentativo di rassicurare gli elettori delle sue credenziali moderate. Anche Trump, a sua volta, sta cercando di temperare alcuni degli orientamenti più radicali (e impopolari) del suo partito, impegnandosi a porre un veto su un eventuale divieto federale all’aborto.

    Un’altra questione importante su cui entrambi gli schieramenti convergono è la necessità di contrastare la Cina, considerata la principale minaccia agli interessi statunitensi in questo secolo. E il sostegno irremovibile a Israele nelle devastanti offensive a Gaza e in Libano.

    Almeno in parte questi avvicinamenti sono il risultato della competizione serrata per convincere gli ultimi elettori indecisi, in una delle votazioni più in bilico degli ultimi decenni. Ma questa ricerca degli elettori ancora in dubbio potrebbe essere fuorviante, come sostiene Ronald Brownstein in un articolo su The Atlantic, in cui l’autore spiega come sarà molto più importante convincere la parte meno motivata dei rispettivi sostenitori ad andare effettivamente a votare.

    Caccia agli indecisi: ma quali?
    Nel mirino delle due campagne, secondo Brownstein, non ci sono tanto gli elettori che hanno ancora dubbi se scegliere tra l’ex presidente repubblicano e l’attuale vicepresidente democratica (in gergo «persuasibili»). Piuttosto il target è un gruppo di indecisi molto più numeroso, composto da chi sostiene uno dei due candidati ma non è sicuro se andrà a votare o meno. Questi elettori, definiti «irregolari», ricevono meno attenzione dalla stampa ma possono finire per pesare in maniera decisiva sull’esito del voto.

    Sarebbe questo il motivo, secondo il commentatore conservatore Jonah Goldberg, per cui Trump ha recentemente adottato una retorica sempre più «apocalittica», definendo gli immigrati «vili animali» e Harris «mentalmente invalida», fino a invocare l’uso di violenza «veramente dura» per porre fine al problema delle rapine. La scelta di usare queste parole «probabilmente allontana la maggior parte degli elettori persuasibili. Ma potrebbe essere la soluzione giusta per smuovere un sottogruppo di elettori irregolari», ha scritto Goldberg sul Los Angeles Times.

    Per Harris invece, la priorità sembra essere stata di rassicurare la fascia più moderata dell’elettorato, rischiando di indispettire la base. Un esempio sono i riferimenti ripetuti, nelle interviste e negli interventi pubblici, alla pistola che tiene in casa. «Se qualcuno entra in casa mia si becca una pallottola», ha detto a Oprah Winfrey la vicepresidente, accusata di ipocrisia visto il sostegno storico a misure per limitare la vendita di determinati tipi di armi.

    L’abbraccio alla destra ha sfidato anche tabù che potevano sembrare fino a qualche anno fa invalicabili. È il caso dell’endorsement, accolto con convinzione da Harris, dell’ex vicepresidente repubblicano Dick Cheney. Considerato per anni dai democratici simbolo degli scandali e dei fallimenti della presidenza Bush, e uno dei principali responsabili della famigerata guerra al terrore, è stato spesso criticato da Barack Obama, che in cambio Cheney ha definito «il peggior presidente della mia vita». Il 3 ottobre, a poco più di un mese dall’elezione, Harris lo ha ringraziato per il suo sostegno «e per quello che ha fatto per servire il nostro Paese».

    Il rischio per Harris, avvertono gli esperti, è di finire per demoralizzare quelle fasce che hanno portato Biden e i democratici alla vittoria nelle presidenziali del 2020 e alle midterm (solo legislative) del 2022.

    Secondo alcuni osservatori i tentativi di rassicurare l’elettorato moderato rischiano infatti di scontrarsi con la necessità di mobilitare gli elettori più giovani e progressisti, ancora incerti se votare o meno. Anche se sondaggisti come Nate Silver ritengono i numeri troppo esigui per fare la differenza, in parte c’è anche preoccupazione per le defezioni legate al sostegno di Washington alle operazioni israeliane a Gaza e in Libano.

    La variabile “uncommitted”
    Lo scorso mese il movimento di elettori democratici che durante le primarie aveva protestato contro Joe Biden per la distruzione della Striscia di Gaza ha annunciato che non sosterrà Harris. «La riluttanza della vicepresidente Harris a cambiare posizione sull’invio incondizionato di armi o anche solo a fare una chiara dichiarazione a favore del rispetto delle leggi statunitensi e internazionali sui diritti umani ha reso impossibile per noi sostenerla», hanno fatto sapere dal movimento Uncommitted, che ad agosto aveva portato 30 delegati alla convention di Chicago. In quell’occasione aveva fatto discutere la scelta di non accogliere la richiesta di far intervenire sul palco un qualsiasi esponente palestinese americano. A settembre, nell’annunciare la decisione, hanno ribadito che Harris ha rifiutato di incontrarli nello stato chiave del Michigan, in cui vivono 278.000 arabi-americani. Nel 2020 Biden aveva conquistato lo stato con un margine di soli 154.000 voti, strappandolo a Trump che quattro anni prima aveva vinto con 10.704 voti di vantaggio. Durante le primarie, in cui Biden era l’unico candidato, più di 100.000 persone avevano scelto sulla scheda «uncommitted», la forma scelta dal gruppo per esprimere la protesta. Il movimento si oppone comunque a Donald Trump e non sosterrà altri candidati. Ma non si impegnerà a favore di Harris.

    In generale, il rischio per i democratici è di andare a intaccare una componente importante della coalizione che ha fermato i repubblicani nel 2018, nel 2020 e nel 2022. A lanciare l’allarme è Mike Podhorzer, ex responsabile politico dell’Afl-Cio, la più grande confederazione sindacale degli Stati Uniti. Secondo Podhorzer la priorità dei democratici dovrebbe essere di allargare l’elettorato, piuttosto che concentrarsi su quei pochi elettori veramente indecisi. Una linea da tenere ancora di più contro Trump, particolarmente efficace nel mobilitare quella parte dei suoi sostenitori che solitamente non va a votare.

    Come spiegato da The Atlantic, negli ultimi anni i democratici hanno registrato miglioramenti tra i loro elettori più fedeli, aumentando i consensi tra i bianchi con istruzione universitaria, che votano più regolarmente di altri gruppi. Ma se si restringe il campo ai soli Stati chiave, non sono stati gli elettori più assidui a premiare i democratici. Le persone che hanno votato in tutte e quattro le elezioni nazionali dal 2016, secondo le stime di Podhorzer, hanno favorito il partito repubblicano, seppur di poco. In questi Stati il vantaggio dei democratici è stato piuttosto tra gli elettori meno assidui, andati alle urne solo dopo la vittoria di Trump nel 2016. Un gruppo in cui spiccano giovani, neri e latinos: sono loro, secondo Podhorzer e altri esperti che la pensano come lui, a costituire l’ossatura della «maggioranza anti-Maga» delle scorse tornate elettorali. Per Harris sarà essenziale incassare di nuovo la fiducia di questi elettori, classificati come meno «affidabili». Podhorzer ritiene che a prevalere sarà il partito che riuscirà a trascinare alle urne il maggior numero di elettori «irregolari».

    Il target
    Quasi 91 milioni di persone, secondo le stime di Podhorzer hanno votato almeno una volta nelle quattro elezioni nazionali, presidenziali o legislative, svoltesi dal 2016 contro Trump o i candidati repubblicani, mentre circa 83 milioni sono andati alle urne per scegliere almeno una volta Trump o il partito repubblicano. Nel 2020, anno in cui è stata registrata l’affluenza più alta dal 1900, circa un terzo degli aventi diritto non ha votato, pari a 80 milioni di persone.

    Secondo dati riservati citati da The Atlantic, negli Stati chiave i bianchi senza una laurea rappresentano il 70 per cento o più dei non elettori che propendono per Trump. In altri Stati chiave del Sud, e anche in Michigan, la maggioranza di chi preferisce Harris, ma è restio a votare, è rappresentata da neri. Sempre in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin una parte significativa degli “irregolari” è composta da donne bianche senza laurea. Sono questi i bacini da cui la campagna di Kamala Harris cercherà di attingere per trovare la strada verso i 270 voti al Collegio elettorale.

    Una mano a Kamala Harris, sul fronte dell’entusiasmo, l’ha data la defezione di Joe Biden. Il passo indietro dell’attuale inquilino della Casa bianca dopo la débâcle del dibattito con Trump ha dato alla sua vice la possibilità di rimettere in pista i democratici. Finché si prospettava una riedizione della sfida del 2020, quando Trump e Biden erano già stati i candidati più vecchi di sempre, era difficile pensare di poter mobilitare i sostenitori meno propensi ad andare alle urne. Dopo il cambio in corsa i democratici sembravano poter beneficiare di un rinnovato entusiasmo e sembravano aver ribaltato i pronostici dopo un netto balzo nei sondaggi. Ma le ultime settimane hanno fatto crescere i timori tra chi pensa che questo potrebbe non essere abbastanza.

    «La gente è nervosa. Sanno che i sondaggi sono in bilico», ha detto alla Cnn una fonte vicina alla campagna democratica. «Molti di noi vedono i flashback del 2016. Sappiamo che può andare per il verso sbagliato e la ferita è ancora fresca».

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