The American Dream, once again. Il sogno che nel paese della felicità come diritto costituzionale tutto può succedere, tutto può essere realizzato, prende di nuovo forma.
Nella lunga nottata post-elettorale che vivono gli Stati Uniti in queste ore, l’American Dream non può non avere le sembianze umane del volto di Alexandria Ocasio-Cortez.
È lei il simbolo di questo riposizionamento dei “Democrats” americani, che nelle elezioni di mid-term si riprendono la camera bassa, il Congresso, del Parlamento statunitense.
La storia della Ocasio-Cortez, ormai arcinota, è di quelle da raccontare ai giovani sfiduciati, a quelli che non credono più nella politica e nei sogni.
Classe 1989, nata e cresciuta nel Bronx – nell’immaginario collettivo globale uno dei più degradati boroughs di New York, dimora della malavita afroamericana – figlia di madre portoricana, la Cortez si è affermata nei mesi scorsi come l’icona dei millenials di sinistra di tutto il mondo.
Le sue umili origini, i problemi familiari, i sacrifici per gli studi universitari, la voglia di riscatto, l’alzare la voce di fronte alle ingiustizie e alle iniquità della società ultraliberista americana (accentuate con la presidenza Trump), la richiesta di un maggior e miglior welfare state, la rivendicazione di più ampi diritti per le categorie relegate ai margini della comunità, il parlar chiaro e diretto, l’indisponibilità a farsi finanziare la campagna elettorale dalle lobbies: tutti questi fattori hanno presto reso la neo congresswoman un simbolo, regalandole una vittoria fino a pochi mesi fa insperata.
Certo, la fu-cameriera di un fast-food messicano di Union Square (solo fino a sei-sette mesi fa, raccontano le cronache d’oltreoceano) mancherà d’esperienza, e non è questo un aspetto secondario per chi siede nel parlamento del paese più influente al mondo. Insieme a lei, un’altra under-30, Abby Finkenauer, salirà a Capitol Hill, nella folta compagine di (giovani) donne che i democratici installeranno a Washington D.C.
Tuttavia, la Ocasio, prima di condurre la sua campagna, ha acquisito esperienza lavorando nel team dell’allora sfidante di Hillary Clinton alle primarie democratiche del 2016, quel vecchio Bernie Sanders che è il vero ispiratore di questa ondata di giovani socialisti americani.
Inoltre, è bene tenere in considerazione che il sistema politico americano, dove vige un elevato livello di accountability dei membri del congresso nei confronti del proprio elettorato, pretende una subitanea assunzione di responsabilità e un’altrettanto fulminea capacità di risposta da parte dei deputati, pena l’irrilevanza, o peggio, la disaffezione dei votanti.
Sul piano interno statunitense, è chiaro che queste elezioni di mid-term rappresentano una battuta d’arresto per il presidente in carica. Certo, Trump mantiene una maggioranza a lui tendenzialmente favorevole al Senato, ma d’ora in poi negoziare con la Camera sarà compito arduo. Sui temi dell’immigrazione, dei diritti civili, dell’equità sociale, delle riforme economiche, delle politiche commerciali, la compagine democratica si preannuncia battagliera.
Anche perché, al di là della Ocasio-Cortez e della Finkenauer, per la prima volta entrano in parlamento due deputate musulmane, rispettivamente di origini somala e palestinese. Non proprio una condizione favorevole per provvedimenti come il Muslim ban e affini, insomma.
Sul piano internazionale, Trump, che pure continuerà a occultare la sconfitta, mostrando tronfio il suo orgoglio da invincibile tycoon, ne esce ridimensionato. E’ vero, la politica estera è prerogativa più del Presidente e del Senato, che non della Camera, negli Stati Uniti.
Ma la legittimazione popolare, ormai ammezzata, non è un fattore che non può essere preso in considerazione dalle cancellerie di tutto il mondo. Che sia l’inizio del declino dei sovranisti? Difficile dirlo, probabilmente no. Il vento del nazionalismo soffia e soffierà ancora forte in diverse aree del globo.
Certo, però, che il pugno duro mostrato dal presidente in alcuni contesti (leggi Iran), il personalismo di alcune decisioni (vedi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme), la battaglia per dimostrare la sua estraneità alla penetrazione russa nella vita politica statunitense, le scellerate politiche in tema di immigrazione e così via, subiranno quantomeno una forte critica interna, che ne decreteranno probabilmente un forte ridimensionamento. Al contrario, sul piano internazionale, una certa sinistra esce rafforzata da queste elezioni.
È la sinistra di chi, come Sanders prima e la Ocasio-Cortez poi, non ha paura di pronunciare la parola socialismo, nemmeno negli Stati Uniti, tradizionalmente anti-socialisti. La compagine dei Democratic Socialists appare vincitrice, forse addirittura prevalente rispetto ai moderati dello stesso partito.
La conseguenza immediata potrebbe essere la creazione di una moderna “internazionale socialista”, che oltre agli esponenti americani, abbraccia il laburista britannico Corbyn e tutti coloro che, sempre più e da più parti, si richiamano agli antichi valori della sinistra. Non è un caso che il segretario uscente del Partito Democratico, Maurizio Martina, in odore di primarie e di congresso, sia stato ricevuto due giorni fa, proprio da Corbyn, a Londra, il quale si era rivolto fino a pochi mesi or sono al leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso.
E non è un caso che Martina sia stato chiaro nell’affermare che “occorre costruire un’iniziativa globale che unisca le energie di coloro che non vogliono consegnare il futuro dei popoli alla nuova destra nazionalista” e che in tal senso “l’esperienza di questi anni dei laburisti inglesi è molto interessante innanzitutto per la grande capacità di coinvolgimento e mobilitazione delle giovani generazioni su battaglie di equità, giustizia e solidarietà”.
Che sia rinata, proprio dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, l’Internazionale Socialista (dei millenials)? Per favore, non ditelo a Trump, non svegliate Margaret Thatcher.