«Va alle urne una Francia diversa da cinque anni fa, tesa agli estremi, divisa, incattivita». Così descrive il secondo turno per le presidenziali Marina Valensise, scrittrice, analista di politica internazionale e già direttrice dell’Istituto di cultura italiana a Parigi.
Perché questo ballottaggio è diverso da quello del 2017, pur vedendo scontrarsi gli stessi candidati?
«Nel 2017 Macron si è presentato alle elezioni come il candidato dell’innovazione, che voleva rompere la contrapposizione tradizionale tra destra e sinistra, e portare un vento nuovo nella politica francese in nome dell’europeismo e dell’avvicinamento del potere ai cittadini. Le Pen all’epoca rappresentava l’estrema destra, cioè il voto di protesta. È arrivata in ballottaggio quella volta con il 19 per cento, ma non è riuscita a conquistare la fiducia dei francesi. Ricordiamo che un momento cruciale fu il dibattito televisivo dove Macron la mise praticamente ko, rivelando tutte le sue lacune a livello di competenza. In questi cinque anni Macron ha governato al centro, con i voti de La République en Marche provenienti dal movimento dal basso molto sentito. Questa sua presidenza “oltre i partiti” ha registrato la crescita delle fazioni estreme che sono rimaste all’opposizione. In questi cinque anni non sono mancate le tensioni sociali, prima con i gilet jaunes, poi con la pandemia e infine con la guerra in Ucraina. La Francia post prima presidenza Macron ha un tasso di disoccupazione più basso, ma un debito pubblico del 116 per cento del Pil».
La società francese che caratteristiche ha oggi?
«Ci sono stati passi avanti nel settore della tecnologizzazione delle imprese, della digitalizzazione, ma il gap tra classi sociali è aumentato. Che nell’Esagono si traduce nella frattura tra la Francia metropolitana – sostanzialmente attorno a Parigi, che è una capitale centralizzata – e le aree della periferia, la cosiddetta Francia periferica. Aree segnate dalla desertificazione, dall’abbandono, dalle difficoltà. Dove le persone stentano ad arrivare alla fine del mese perché hanno salari bassi e costi in aumento. Quindi una frangia scontenta, frustrata. Pronta a votare Marine Le Pen o Jean Luc Mélenchon».
La “dédiabolisation”, la cosmesi politica, del Front National è riuscita? Ormai è un partito presentabile?
«Sì era cominciata da tempo questa operazione, ma ora ha raggiunto l’apice. Marine Le Pen ha fatto una cosa molto abile: non si è preoccupata delle questioni identitarie, di religione, contro l’Islam eccetera, che già trattava il nuovo concorrente Éric Zemmour. Maha deciso di andarsi a prendere l’elettorato di Mélenchon con una campagna da “destra sociale” invece che da destra sovranista. I temi sono stati così la difesa del potere d’acquisto, l’antiglobalizzazione. Così ha potuto cambiare linguaggio, lasciare i toni bellicosi agli altri e captare lo scontento non solo delle classi popolari, ma anche delle classi medie spaventate di vedere che la Francia diventa sempre meno francese. Se si guarda però il programma, resta un nucleo di destra estrema: Marine Le Pen vuole addirittura scardinare il sistema di universalismo democratico che regge la Costituzione francese e introdurre la priorità nazionale, con cui soltanto i francesi avrebbero diritto agli alloggi sociali, ai sussidi. Insomma, al welfare state».
Da Le Pen a Orban, fino a Salvini. I legami con la Russia di Putin sembrano essere il fil rouge di queste destre. Ancora oggi è così?
«La Le Pen ha avuto un finanziamento dalla First Czech Russian Bank nel 2015 di 9 milioni di euro. Questa banca ceco-russa è fallita, i crediti sono stati acquisiti da una società di auto, che poi li ha trasferiti in una società che opera nel campo dell’aeronautica fondata da ex capi del KGB vicini a Putin. Marine Le Pen è sempre stata legata a Putin e ha sempre sostenuto che l’annessione della Crimea fosse stata legale, che le rivolte di piazza Maidan fossero un colpo di Stato e che contro la Russia non bisogna mai usare sanzioni, perché spingerebbero la Russia ad allearsi con la Cina, mentre secondo lei è meglio averla vicina all’Europa».
I grandi sconfitti di queste elezioni sono i partiti tradizionali?
«I partiti classici, quelli da quinta Repubblica, sono scomparsi. Ovvero i socialisti e i gollisti. Ma già dal 2017, quando i repubblicani di destra si sono “autoeliminati” con gli scandali che hanno coinvolto il candidato François Fillon. I socialisti addirittura non si erano presentati, perché Macron si presentava come ex ministro socialista del governo Hollande».
Da sinistra Macron riuscirà a prendere i voti per il secondo turno?
«Ci sta provando. Intanto ha iniziato la vera e propria campagna elettorale solo nelle ultime due settimane. Prima era il presidente candidato, ora è il candidato presidente. Sta tentando di incidere sulle tematiche ecologiste e di tutela del lavoro. Il rischio vero è che chi ha votato Mélenchon al primo turno si astenga o voti scheda bianca. Lo stesso leader de La France Insoumise ha chiesto di “non regalare nessun voto a Marine Le Pen”, ma non ha neanche detto espressamente di votare Macron».
La guerra in Ucraina come ha influenzato le elezioni?
«Il tema della guerra è rimasto laterale in campagna elettorale, per motivi diplomatici e di politica estera. La Francia oltre ad avere la forza nucleare, fa parte del governo integrato della Nato e ha anche il semestre di presidenza europea. Quindi per l’Eliseo la situazione è più delicata che mai».
Continua a leggere sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui.