Rodrigo “Rody” Duterte, 71 anni, è il nuovo presidente delle Filippine. Ottenendo quasi il 40 per cento dei voti, ha battuto i suoi due maggiori avversari, il liberale Max Roxas e l’indipendentista Grace Poe. È stata una campagna elettorale particolarmente sentita tra la popolazione filippina, sia in termini di affluenza alle urne che di presenza sui social, attraverso i quali c’è stato un continuo monitoraggio degli exit poll, riguardanti tanto i candidati alla carica di presidente quanto quelli per la vicepresidenza.
Il neo eletto presidente si contraddistingue dai suoi predecessori sotto diversi aspetti. Nelle Filippine la consuetudine vuole che un candidato alla presidenza appartenga sempre alla classe d’élite. Duterte invece, sebbene provenga da una famiglia di politici, non fa parte del circuito delle ricche famiglie latifondiste. Il candidato vincente normalmente viene dalla capitale Manila, da Luzon o al massimo da Visayas, regione centrale delle Filippine. Rody Duterte al contrario, ha svolto gran parte della sua attività politica nella regione di Mindanao, a sud dell’arcipelago filippino, zona col maggiore tasso di povertà e spesso epicentro di tensioni con la minoranza musulmana. Infine, ciascun candidato di solito può contare sull’endorsement dei magnati locali che si impegnano a finanziare la campagna elettorale; quella di Duterte invece è stata sostenuta dal basso, per tutto il corso della sua durata.
Gli appellativi che la stampa internazionale gli ha affibbiato negli ultimi anni ben delineano il suo profilo politico e personale, quasi quanto le iniziative portate avanti come sindaco della città di Davao e di membro del Congresso: il castigatore. Il killer. Il donnaiolo. Più recentemente, il Donald Trump delle Filippine.
Il primo se lo è guadagnato per essere stato l’artefice di un cambiamento repentino nell’immagine di Davao City. Da città ad alto tasso di criminalità, è ora considerata uno dei centri con il maggiore controllo della sicurezza e dell’ordine pubblico. A un tale risultato tuttavia, è giunto grazie al ricorso a gruppi noti come gli “squadroni della morte” o DDS (Davao Death Squads), usati per reprimere e, se necessario, uccidere, soggetti sospettati di attività criminali. In più occasioni, aveva dichiarato che, qualora fosse diventato presidente, avrebbe applicato “il modello Davao” a tutto il territorio filippino.
Duterte, in seguito, ha dimostrato di difendere con altrettanta fermezza anche gli altri punti della sua agenda politica. Primo fra tutti, la proposta di introduzione del federalismo. Secondo il presidente, questo sistema consentirebbe di sfruttare al meglio le risorse ed implementare i servizi delle realtà locali. Permetterebbe inoltre di veicolare lo stanziamento dei fondi statali secondo modalità più “decentrate”, che non vedano sempre la capitale Manila come unico destinatario degli investimenti pubblici.
I dati sembrano dargli ragione: il settore agricolo ad esempio, costituisce la principale risorsa economica per gli abitanti delle zone rurali. In particolare, la regione di Mindanao è ricca di terre coltivabili e potrebbero essere messe in vendita a prezzi ragionevoli. Il sottosviluppo delle infrastrutture in quelle aree, altra grande piaga che affligge le Filippine, dovuta proprio alla mancanta destinazione dei fondi, rende quei terreni del tutto inaccessibili, scoraggiando così i potenziali acquirenti.
Il linguaggio colorito e il totale disinteresse verso le regole del politically correct invece, gli hanno assicurato il paragone con l’americano Donald Trump. Per spiegarlo, basterebbe ricordare l’incontro ufficiale avuto con l’ambasciatore australiano e quello americano, durante il quale Duterte, infastidito dalle loro osservazioni, aveva invitato entrambi a “chiudere la bocca”. O ancora, l’aver definito il pontefice “a son of a whore”, per il blocco del traffico causato dalla sua visita a Manila nel gennaio del 2015.
In un paese come le Filippine, di fervente fede cattolica, dichiarazioni come questa sarebbero state sufficienti a mettere fuori gioco un qualunque candidato. La stesso progetto di combattere la criminalità uccidendo chiunque risulti coinvolto nel traffico di droga o in episodi di corruzione, avrebbe potuto costargli il sostegno di quell’elettorato formato dalle generazioni vissute tra gli anni Settanta e Ottanta, sotto la dittatura di Marcos.
Sono loro a ricordare ancora come in quel periodo le violenze, gli omicidi e le sparizioni a spese degli oppositori del regime fossero all’ordine del giorno. Solo con l’elezione del presidente Fidel Ramos nel 1998 le Filippine hanno potuto conoscere una nuova stagione di ricambio politico, con presidenti che si sono succeduti tra un mandato e l’altro sulla base di meccanismi democratici.
Sono in molti, compreso il presidente uscente Benigno Aquino III, a temere che una personalità come quella di Duterte possa riportare in vita i vecchi, ma non poi così assopiti fantasmi di una dittatura durata un ventennio. Eppure, nulla di tutto questo sembra aver arrestato la sua corsa alla presidenza.
La vittoria di Rodrigo Duterte è figlia delle aspirazioni dell’attuale generazione. È una generazione che conosce il suo passato, ma non sente più sulle sue spalle il peso di vivere in uno stato senza democrazia. Lo ricorda, ma sceglie i propri governanti con la sguardo proiettato al futuro, a quanto ancora resta da fare per rendere il paese libero dalla corruzione e da un’economia che ha sì avuto una crescita significativa sotto l’amministrazione di Aquino, ma che continua a trascinare sul carro dei vincitori soltanto la fasce di reddito più alte della popolazione filippina.
Quasi un terzo di essa continua a vivere con meno di tre euro al giorno: ben al di sotto la soglia di povertà. La sopravvivenza di molte famiglie filippine è tuttora dipendente dai balikbayan – ossia la schiera di madri, padri, fratelli e figli che lascia l’arcipelago per trasferirsi altrove, negli Emirati Arabi, Stati Uniti, Canada o nella stessa Italia, con il solo scopo di guadagnare un salario sufficiente a mantenere i parenti rimasti in patria.
Duterte ha vinto questa campagna perché ha saputo parlare alla “pancia” dell’elettorato filippino, quella composta dalle classi più umili, a discapito degli esponenti che ruotano attorno a Makati, il centro finanziario della capitale filippina. Lotta alla corruzione, un’economia più inclusiva e maggiori tutele per chi è al di sotto la soglia di povertà: grazie a questa triade, il neo presidente ha convinto chi, da tempo, vuole uscire dall’immobilismo perpetrato dai leader storici – i vari Marcos, Aquino, Roxas, che si sono alternati alla guida del paese – e ha fame di cambiamento. Talmente fame da voler vedere realizzate le proprie aspettative anche a costo di sacrificare parte di quella democrazia, che la generazione precedente aveva desiderato con la stessa forza.
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