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    La rivoluzione egiziana, cinque anni dopo

    Il 25 gennaio del 2011 migliaia di egiziani scendevano in piazza per chiedere riforme costituzionali. Cinque anni dopo, non tutto è andato come si sarebbero aspettati

    Di Silvia Rocchetti
    Pubblicato il 25 Gen. 2016 alle 15:57 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:16

    “Chi ha paura del 25 Gennaio?” titola Reuters in un articolo sulla situazione in Egitto a pochi giorni dall’anniversario della Primavera Egiziana, cominciata con le proteste in piazza Tahrir.  

    Alcuni attivisti hanno lanciato l’hashtag انا_شاركت_في_ثورة_يناير # (Io ho partecipato alla rivoluzione di gennaio) sfidando apertamente i servizi di sicurezza che monitorano costantemente i social network e le comunicazioni online.

    Per scoraggiare disordini e proteste, il governo dell’ex Generale al-Sisi ha bloccato l’accesso a piazza Tahrir e perquisito cinquemila abitazioni del Cairo a caccia di possibili giovani attivisti, arrestandone alcuni “in via precauzionale” come dichiarato a Reuters da un esponente dei servizi di sicurezza.

    Lo scorso giovedì, uno dei palazzi in procinto di essere perquisito è esploso, causando la morte di tre poliziotti. 

    Il regime ha cercato di utilizzare come arma anche la religione, invitando calorosamente gli Imam a condannare qualsiasi tentativo di sovvertire l’ordine pubblico come atto peccaminoso agli occhi di Dio. 

    Di sicuro, come suggerito da alcuni analisti, questi sono tutti segnali di un regime sempre più debole che cerca di mantenersi in piedi ad ogni costo. La popolarità del Presidente, un tempo visto come l’uomo che avrebbe risollevato il Paese dall’estremismo Islamico e da un’economia allo sbando, è in costante calo.

    Questo si deve in parte ai metodi repressivi del regime, ma forse soprattutto ad un’economia che fatica a ripartire. La classe media, sostenitrice della rivolta contro Mubarak, era in buona parte disposta a chiudere un occhio sul colpo di Stato del 2014 e sui metodi repressivi del regime in cambio di una ripresa economica concreta.

    Tuttavia, malgrado il lancio di grandi opere come l’ampliamento del Canale di Suez e la costruzione di una “nuova Cairo”, un quartiere esclusivo e moderno alla periferia della città, la classe media ha visto ben pochi risultati concreti. La retorica presidenziale del pugno di ferro come garanzia di stabilità e quindi di crescita economica comincia senz’altro a vacillare. 

    Difficile però immaginare un nuovo tentativo di rivoluzione. Il regime è tollerato dalle potenze Occidentali, interessate ad un Egitto stabile ad ogni costo, dato il caos regnante nel resto della regione. Sul fronte interno, sebbene ci sia chi ancora ha voglia di reagire, chi ha sperimentato sulla propria pelle la detenzione, alcuni persino la tortura, ai tempi di al-Sisi è restio a rischiare un secondo arresto, soprattutto non potendo contare sul sostegno politico di un’opposizione, già frammentata nel 2011, e ulteriormente provata dall’arresto di esponenti di spicco dal 2014 ad oggi. 

    Un esponente del Partito dei Socialisti Rivoluzionari ci ha spiegato che è comunque difficile avvicinare le persone alla politica, molto più che ai tempi di Mubarak. Sebbene il pugno di ferro possa essere un segnale di insicurezza del regime, infatti, semina comunque terrore e senso di impotenza; per ogni ragazzo arrestato, ci ricorda l’attivista dei Socialisti, c’è un fratello, una sorella, un amico, un compagno che hanno paura.
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