Il fotografo e regista egiziano Shady Habash è morto venerdì 1 maggio nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo: da oltre due anni era in attesa di processo dopo essere stato arrestato per aver diretto il video musicale di una canzone critica nei confronti del presidente Abdel Fatah al Sisi. Le cause della sua morte non sono ancora state rese note.
La stessa prigione di Patrick Zaky
Il carcere è lo stesso in cui è rinchiuso Patrick Zaky, il ricercatore 28enne dell’università di Bologna arrestato al Cairo a febbraio. La morte del giovane regista fa ancora una volta riflettere sulle condizioni in cui i detenuti vivono all’interno delle carceri egiziane, già normalmente sporche e sovraffolate e in queste settimane rese ancora più pericolose dal dilagare del Coronavirus. In particolare, il complesso carcerario di Tora è considerato uno dei peggiori d’Egitto, ed è situato nell’omonima città (nota anche come Tura) a sud del Cairo. L’istituto comprende quattro prigioni, un ospedale militare e un carcere di massima sicurezza noto come Scorpion.
Senza sentenza, né processo
L’ultimo messaggio che il giovane regista era riuscito a scrivere alla famiglia risale al 2019: “Sto morendo lentamente, giorno dopo giorno. La prigione ti ammazza così. Prima cerchi di resistere, poi di non impazzire dopo essere stato buttato dentro una cella e dimenticato, senza sapere se e quando ne uscirai”. Habash era stato arrestato nel marzo 2018 per aver curato la regia di “Balaha”, una canzone di Ramy Essam, uno dei più famosi cantanti egiziani, icona della rivoluzione di piazza Tahrir, a sua volta arrestato, torturato e poi fuggito in Svezia. “Shady non aveva niente a che vedere con il contenuto della canzone. Da regista affermato lavorava costantemente su progetti in Medio Oriente e quello di ‘Balaha’ non era che uno dei tanti video che aveva diretto”, scrive Essam sulle sue pagine social.
Anche l’autore della canzone era stato arrestato e condannato, nell’agosto 2018, a tre anni di carcere. Contro Habash invece non c’era stata sentenza, né processo: i capi di imputazione contro di lui (diffusione di notizie false, appartenenenza a un gruppo terroristico ecc) sono simili a quelli che pendono sulla testa di migliaia di egiziani accusati di essere oppositori del presidente al Sisi. Incluso Patrik Zaky. Per mesi il ragazzo è stato convocato dai giudici e la sua detenzione prolungata di 45 giorni in 45 giorni senza poter discutere delle accuse. Un meccanismo più volte denunciato da Amnesty International e da altri gruppi che si occupano di diritti umani.
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