Due italiani in carcere indiano
Sono in carcere in India dal febbraio del 2010. Tomaso Bruno, 30 anni, e Elisabetta Boncompagni, 40 anni, sono condannati all’ergastolo per l’omicidio del loro compagno di viaggio. Attendono in un isolamento pressoché totale la sentenza definitiva nel District Jail di Varanasi, la più antica città dell’India immersa tra le rive del Gange. Vivono in due parti diverse della prigione e, nonostante le richieste fatte anche dall’Ambasciata italiana a Nuova Delhi, non sono mai state concesse telefonate ai genitori.
Da inizio dello scorso gennaio una ragazza italiana che vive a Varanasi, nell’Uttar Pradesh, lo stato confinante con Delhi (nord del Paese) li va a trovare. Lisa Fracchia ha 29 anni e lo scorso autunno ha lasciato Genova per trasferirsi in India. “Appena ho scoperto la loro storia mi sono messa in contatto con la famiglia di Tomaso”, racconta. “La prima volta che sono andata nel carcere ero emozionata e un po’ preoccupata. Ma abbiamo fatto amicizia velocemente. Tanto che, ormai, li vado a trovare ogni settimana”.
La storia di Tomaso e Elisabetta non ha avuto molto risalto sui media nazionali. Tomaso Bruno è di Albenga, in provincia di Savona, Elisabetta Boncompagni è di Torino. Entrambi lavoravano a Londra da alcuni anni. All’inizio del 2010 sono andati in India insieme a Francesco Montis, il compagno di Elisabetta. Il 4 febbraio 2010 sono a Varanasi e si risvegliano nella camera di hotel con Francesco agonizzante. Morirà poco dopo in ospedale. Il 7 febbraio, dopo tre giorni in cui la polizia impone a Tomaso ed Elisabetta di restare in albergo, i due vengono arrestati con l’accusa di omicidio. Dopo un anno di processo – a causa di continui rinvii per scioperi degli avvocati, ferie dei giudici e irreperibilità dei testimoni – il 23 luglio 2011 sono condannati all’ergastolo. La sentenza viene poi confermata in appello.
Tomaso ed Elisabetta si oppongono alla decisione del tribunale. “Il presunto movente sarebbe passionale”, spiegano. “Il giudice ritiene vi fosse un triangolo amoroso tra noi poiché condividevamo la stanza. Dopo l’autopsia hanno deciso che lo abbiamo ucciso strangolandolo, ma l’esame dell’accusa è stato fatto da un oculista. Non ne hanno concesso uno ulteriore e hanno subito cremato il corpo”.
Lisa conosce bene l’ambiente delle prigioni perché a Genova lavorava con i minori appena arrestati. “Il carcere di Varanasi mi ha stupito. È una struttura bassa, non opprimente. Basti pensare che gli incontri avvengono in un giardino con degli alberi”. Ma le condizioni di vita nel District Jail sono molto dure. Tomaso ed Elisabetta vivono in ‘barak’ che ospitano sino a 140 detenuti, e a Varanasi il clima è torrido per gran parte dell’anno. “La città è terribilmente umida, in estate si sfiorano i 50 gradi. I detenuti bevono acqua non potabile, presa da un pozzo in mezzo al carcere, e dormono per terra su strati di stuoie e coperte”.
Sino a quest’anno Tomaso ed Elisabetta ricevevano solo le visite dei genitori, quelli di Tomaso sono stati in India già 15 volte. A differenza di altre carceri indiane non è concesso l’uso di mezzi elettronici e l’accesso a internet; gli unici contatti con il mondo esterno erano dunque le lettere di amici e parenti. “Mi scrivo con mia mamma ogni settimana”, racconta Tomaso. “L’avvocato mi porta le stampe delle sue mail e delle pagine del gruppo Facebook che mi sostiene”. “Ci facciamo forza con quello che abbiamo”, continua insieme a Elisabetta. “Passiamo le giornate a leggere i libri e i giornali che riceviamo dall’Italia”.
In casi analoghi, agli indiani è concessa la libertà su cauzione in attesa della fine del processo, ma il tribunale ha sempre negato loro questa possibilità temendone la fuga. “Hanno ricordato il loro arresto solo la prima volta che ci siamo visti”, aggiunge Lisa. “Non amano parlare né del passato né del futuro. Quello che vogliono è ovvio: essere liberati e tornare in Italia. Ma non possono fare altro che aspettare, l’importante per loro è che il tempo passi e si arrivi alla sentenza definitiva”.
Tomaso ed Elisabetta hanno fatto ricorso contro la condanna all’ergastolo. Il 4 febbraio la Corte Suprema indiana lo ha accettato e ha fissato un’udienza il 3 settembre 2013.