Girl in the river: the price of forgiveness è uno di quei docu-film che possono passare inosservati se si scorre il lungo elenco di film candidati agli Oscar 2016. Eppure il film diretto dalla regista pakistana Sharmeen Obaid-Chinoy è riuscito a spuntarla, aggiudicandosi una statuetta come miglior documentario dell’anno.
In realtà è il secondo riconoscimento per la regista che aveva vinto l’oscar nel 2012 con il documentario Saving Face.
Per tutti i 40 minuti di durata, il film costringe lo spettatore a confrontarsi con i delitti d’onore, pratica piuttosto diffusa in Pakistan. La pellicola ripercorre la storia personale della 19enne Saba scappata di casa dopo essersi innamorata di un ragazzo di un quartiere poverissimo di Islamabad.
Quando il padre venne a sapere della fuga di sua figlia per amore di un uomo che non rientrava nei canoni di scelta imposti dalla famiglia, prese il Corano e vi poggiò sopra la mano promettendo solennemente che se Saba fosse tornata a casa di sua spontanea volontà, non avrebbe usato violenze fisiche contro di lei.
Saba si fidò delle parole di suo padre e decise di tornare sui suoi passi. Una volta oltrepassata la soglia di casa, trovò il padre e lo zio ad attenderla. Non ebbe nemmeno il tempo di chiudere la porta che i due uomini l’aggredirono con calci e pugni. Dopo averla picchiata brutalmente, i due la trascinarono con la forza sulla riva di un fiume dove le puntarono una pistola alla tempia ed esplosero un colpo secco.
Qualche istante prima che la pallottola le attraversasse la testa da parte a parte, Saba reagì quasi d’istinto e la spostò di qualche millimetro. Questo movimento le permise di sopravvivere, poiché la pallottola le trapassò l’occhio e la bocca, ma non colpì altri organi vitali.
Credendola morta, i due uomini presero il corpo inerte avvolgendolo in un sacco di iuta e lo gettarono nel fiume. Una volta terminata l’operazione, abbandonarono il luogo del delitto orgogliosi di aver ripristinato il buon nome della famiglia.
La ragazza, tuttavia, riuscì a sopravvivere a differenza di migliaia di sue coetanee vittime dei delitti d’onore in Pakistan. Secondo gli ultimi dati forniti dalle organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani, sarebbero almeno 1000 le donne assassinate dai loro familiari ogni anno in nome dell’onore. In media tre omicidi al giorno.
Il documentario della regista pakistana Obaid-Chinoy ha lo scopo di generare un dibattito senza precedenti sulla pratica dei delitti d’onore nella società musulmana conservatrice pakistana.
Nel discorso di premiazione dal palco del Dolby Theater di Los Angeles, la regista pakistana ha dichiarato che anche il primo ministro Nawaz Sharif, dopo aver assistito alla proiezione del film qualche giorno prima a Islamabad, si è detto disponibile a impegnarsi per rendere tali uccisioni illegali.
“Sono davvero contenta che il mio film abbia generato una discussione a livello nazionale”, ha sottolineato Obaid-Chinoy. “Per troppo tempo i delitti d’onore non sono stati considerati come un crimine in Pakistan, e nessuno dei responsabili è stato perseguito o arrestato. La gente non lo vede per quello che è, ossia un omicidio a sangue freddo, ricollegandolo a questioni di religione o alla tradizione”.
Non aiuta in questo l’attuale legislazione pakistana, che consente alla famiglia di una vittima del delitto d’onore di perdonare gli assassini. Nella maggior parte dei casi, sono proprio i parenti i responsabili di questi omicidi.
I leader politici del Pakistan hanno a lungo evitato di affrontare la delicata questione per paura di una reazione religiosa, anche se non vi è alcuna giustificazione che provenga dal Corano per queste pratiche, come lo stesso film mostra.
L’impegno da parte del primo ministro pakistano per cambiare le linee guida della legislazione in atto, e introdurre nuove normative in materia, è significativo per due aspetti: nel primo caso a farsi promotore di questa causa è un politico conservatore che in passato ha sostenuto la sharia, la legge islamica; nel secondo caso, almeno sulla carta, i responsabili non rimarrebbero impuniti.
Ma i partiti religiosi più intransigenti del Pakistan hanno già mostrato la loro ostilità.
(Qui un breve estratto del documentario premiato con l’Oscar)
“Volevo raccontare la storia di una donna sopravvissuta a questa pratica terribile” ha raccontato la donna, non solo regista ma anche madre di due bambine.
“Così quando ho letto il caso di Saba sui giornali, mi sono precipitata in ospedale per conoscerla. Lei è una giovane donna straordinaria e molto coraggiosa. La sua storia mi ha colpito e ho deciso di realizzare un documentario”.
Saba fin dall’inizio ha confessato di non voler perdonare suo padre e suo zio per tutto il dolore provocato. “Mi batterò per questo caso e non perdonerò mai. Anche se lo facessi, nel mio cuore so che sono spietati”.
La regista ha voluto puntare la sua macchina da presa sul padre della ragazza e sulla decisione di punire la figlia con la morte. In una scena del documentario, il padre da dietro le sbarre, si mostra senza un briciolo di rimpianto o di rimorso per la sua azione e confessa di aver dovuto agire così per lavare l’onta sulla sua famiglia: “Siamo stati costretti a farlo. Ha portato via il nostro onore. Ha distrutto tutto e per salvaguardare l’onore e il rispetto, sono disposto a passare la mia vita in prigione”.
(Qui la protagonista del documentario che interpreta Saba)