L’esercito “conosce il suo posto” nel moderno stato egiziano e “non supererà i suoi limiti.” Così ha esordito il Comandante delle Forze Armate egiziane, Abdul Fatah al-Sisi, domenica scorsa.
Parte di tale dichiarazione era volta a smentire la controparte islamista, secondo cui ufficiali dell’esercito avrebbero cercato di intavolare negoziati con il braccio politico dei Fratelli Musulmani alle spalle dei rivoluzionari. A fronte del succedersi di manovre politiche contestabili da ambo le parti, apre anche alcuni quesiti su un fallito tentativo di mediazione.
“Vogliamo uno stato pluralistico perseguito con mezzi pacifici,” afferma il rivoluzionario indipendente Ahmed Said, “ma la situazione sta degenerando ancora.” La seconda rivolta di piazza ha trascinato l’Egitto in un clima politico molto simile a quello di due anni addietro.
Ancora una volta milioni di manifestanti non sono riusciti a promuovere una concreta svolta politica e sono dovuti ricorrere all’aiuto dell’esercito per sbarazzarsi di uno scomodo presidente. “Le forze armate comprendono di essere al servizio delle persone e non in loro controllo,” afferma Sisi per rassicurarli. Formalmente forze armate e rivoluzionari sono ancora “one hand” (una cosa sola) ma il rovesciamento di Morsi da parte dell’esercito è qualcosa che va al di là del semplice patriottismo.
La Costituzione del 2012 proteggeva gli interessi delle forze armate, non andando a comprometterne né il loro campo d’azione né i fondi necessari per il loro rafforzamento, e si pensava che ciò, assieme all’assoluzione e non persecuzione dei colpevoli delle stragi del 2011, fosse sufficiente al mantenimento di una longeva collaborazione con i Fratelli.
A turbare la giunta militare è però intervenuta una situazione economica sempre più preoccupante. Il controllo dell’esercito sull’economia nazionale egiziana si aggira sul 40 per cento – con imprese, alberghi, ristoranti, campi da calcio. Di questo impero economico si sa ben poco, solo che diversi ufficiali in pensione occupano poltrone di riguardo all’interno di queste strutture e che gli introiti e i fondi non sono verificabili per “ragioni di stato.” Interessi economici così capillari, abbinati a una struttura radicata nel tempo, possono facilmente sconfinare in ambizioni politiche.
L’esercito si è fatto carico di rovesciare un governo autoritario in nome di una svolta democratica ma, invece di porsi come garante tra le diverse parti sociali e politiche, ha proclamato una lotta aperta contro i Fratelli. In soli quattordici giorni la frattura tra giunta e islamisti si è fatta incolmabile. “Stavo pregando quando hanno cominciato a spararci addosso”, afferma il 29enne salafita Karim Waheed presente durante lo scontro tra esercito e islamisti al palazzo delle Guardie Repubblicane.
“Un mio amico è stato ferito e, mentre cercavo di soccorrerlo, i cecchini hanno cominciato a mitragliarci dall’alto.” A detta dell’esercito, sarebbero stati membri dei Fratelli ad aprire il fuoco per primi e loro avrebbero semplicemente reagito all’aggressione subita. Mentre le investigazioni continuano, i beni di quattordici esponenti dei Fratelli Musulmani sono stati congelati dal novello procuratore capo.
In sit-in dal 3 luglio, i Fratelli continuano a occupare le strade, e a scontrarsi con le forze armate, per porre fine al mandato di Sisi e al “colpo di stato”. Lunedì notte, negli scontri scoppiati al Cairo, si sono contati 7 morti e centinaia di feriti, mentre almeno cento sarebbero le vittime islamiste cadute dal fatidico 3 Luglio a oggi.
Il governo ad interim è stato finalmente definito e conta ministri liberali, cristiani e militari, oltre all’economista e capo del governo Hazem al-Beblawi. “L’esercito ha cambiato la sua posizione riguardo alla forma statale desiderabile per l’Egitto,” afferma l’analista politico e rivoluzionario Ahmad Hamdi. “Innanzitutto, il presidente egiziano in carica è al-Beblawi, non Sisi. Poi, le forze armate ci stanno supportando nella nostra battaglia di liberazione dall’occupazione occidentale, saldando nuove alleanze e sbarazzandosi di Stati Uniti e Qatar.”
Detto ciò, sono molti i delusi dall’operato della giunta. “L’esercito ha sfruttato l’opportunità che gli abbiamo dato di rovesciare i Fratelli,” afferma il giovane attivista Ahmed Saed. “Ha deciso di modificare, e non riscrivere, la vecchia Costituzione per non perdere i suoi privilegi. L’unica differenza con il 2011 è che l’esercito ha imparato a governare da dietro le quinte.” “Non sarà mai fatta giustizia ai nostri martiri perché, se si puntasse il dito contro i Fratelli, la colpa ricadrebbe di rimbalzo sui militari stessi,” afferma Said. “L’avanzata dell’esercito in Sinai sta contando tante vittime innocenti e non ci si fermerà qui.”
Da una parte, l’esercito sembra pronto a dare ma, dall’altra, si accaparra ciò che gli conviene. Il 3 luglio Sisi è apparso in diretta tv a fianco dell’imam di al-Azhar e del papa copto, per annunciare la roadmap da seguire. Se, da un lato, tale apparizione ha voluto mostrare alle masse e all’opinione pubblica internazionale che l’intervento militare aveva non solo il supporto popolare ma anche religioso, dall’altro, in una rivoluzione volta a rifiutare ogni forma di oppressione e potere, tradizioni statali come esercito, Chiesa e Al-Azhar, limitano il desiderio di emancipazione della piazza.
Invece di “conoscere il suo posto” e dare legittimità e protezione ai milioni di egiziani scesi in piazza, come ha detto avrebbe fatto, l’esercito egiziano sta inasprendo il conflitto tra le due fazioni di rivoluzionari e islamisti, lasciando aperta la strada a scenari futuri tutt’altro che rassicuranti.
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