Incontrare Bashar al-Assad, l’uomo che nel 2000 a neanche 35 anni, ha ereditato dal padre Hafez la presidenza della Siria, e fargli delle domande, è un’esperienza straniante.
Sono al terzo viaggio in questo paese nell’ultimo anno e mezzo, ho passato notti piene di spari e di esplosioni a Damasco, mi sono aggirato tra le rovine spaventose di Aleppo, ho parlato con soldati russi come con siriani che hanno vissuto sotto il giogo dell’Isis. Ho ascoltato i bisbigli di quelli che criticano il regime ma hanno paura della polizia segreta, so delle centinaia di migliaia di morti, delle torture documentate e di quelle sospettate, credo di aver capito che rischio a ogni riga di prestarmi all’una o all’altra propaganda. Tra l’altro ho pure sessant’anni.
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Per tutte queste ragioni, e per molte altre ancora, non avrei pensato che per intervistare Assad occorresse prima di tutto valicare un muro di giovani donne. Può anche darsi che sia uno spregevole trucco del regime, per imbambolare il povero giornalista. Prima di arrivare al presidente occorre far tappa al Palazzo del Popolo, dove lavorano i funzionari addetti all’informazione. Si tratta di concordare il numero delle domande, il giornale (o canale Tv o sito) su cui l’intervista sarà pubblicata, quando sarà pubblicata e così via.
La funzionaria, che chiameremo Amal, avrà 35 anni, porta tacchi alti e jeans attillati, sfoggia un rossetto carminio, fuma senza problemi e parla un inglese molto migliore del mio. Molto business e pochi fronzoli, ha letto i tuoi pezzi, cita dove e quando li ha visti e sorride come di fronte a un bambino dispettoso ma simpatico se provi a dire che vuoi fare qualche domanda in più.
La sbobinatura la facciamo noi, spiega, e poi la mandiamo per mail. Niente registratore, niente macchina fotografica. Un bloc notes e una penna? Mmm… Forse si può fare. Quando ti accompagna all’uscita, alla fine di una trattativa in cui ha trattato quasi solo lei, i suoi tacchi risuonano sulle tonnellate di marmo di Carrara sparse per gli enormi spazi del Palazzo del popolo, corridoi come autostrade e vetrate per decine di metri quadrati affacciate dall’alto su Damasco.
Al vecchio palazzo presidenziale, costruito dai turchi nel 1910 e usato per la rappresentanza già da Hafez al-Assad, la scena in qualche modo si ripete. Ti riceve Aisha (e qui non si arriva ai trent’anni) che ha studiato negli Usa, è stata borseggiata a Barcellona, conosce bene l’Italia, parla senza problemi un tot di lingue. Sciolta, elegante, cosmopolita, figlia di un ex ambasciatore, grande ammiratrice di Asma al-Assad, la first lady della Siria. Quando le chiedi se il presidente oggi è di buon umore e avrà voglia di parlare, la risposta dietro un sorriso hollywoodiano è: “Il presidente è sempre di buon umore”.
Si aspetta in una saletta, si incontra Assad stando in piedi in una grande sala piena di luce e di finestre. Il che fa pensare a una cosa: perché le misure di sicurezza sono così tenere? Dopotutto non mancano, né in Siria né fuori, quelli che vorrebbero mettere Assad nel centro di un mirino. E due kamikaze si sono appena fatti saltare nel cuore di Damasco, ammazzando cinquanta persone. È vero, sei dovuto rimanere in auto ad aspettare il permesso di salire le due rampe di scale di pietra bianca. Ma non si vedono guardie del corpo o soldati, in giro. Né cecchini sui tetti. Non ci sono vetri blindati o protezioni particolari, appena dietro il palazzo passa una strada di gran traffico, i funzionari sono tranquilli e sorridenti.
Il volto benevolo del regime? Un villaggio Potiomkin, quelli con la sola facciata di case molto in ordine che l’ammiraglio e favorito della zarina Caterina seconda faceva preparare per compiacere la sovrana quando questa voleva calarsi nella Russia profonda? Immagino anch’io che sia così. Però la paura e la tensione sono difficili da nascondere. E questo, in ogni caso, non è lo stile più diffuso. L’apparato di Saddam Hussein, per esempio, teneva a trasmettere un’impressione di forza, persino di violenza. I boss della Russia post-sovietica tenevano a impressionarti con la massa dell’apparato, che era poi ancora quello sovietico.
Qui pare piuttosto il contrario. E Bashar al-Assad ne è il perfetto interprete. Arriva sorridendo, ti lascia sorridendo. Risponde alle domande concentrato, serio, come se volesse far bella figura. Quando sbaglia una parola del suo inglese perfetto chiede scusa, molto polite. Ovviamente gli fai più domande di quelle concordate, sei lì col presidente, che ti possono dire? Lui non fa una piega e i funzionari ti restituiranno una sbobinatura da cui non manca una virgola, né tua né sua.
Abito elegante senza una grinza, cravatta Hermes, Assad ti guarda dall’alto del suo metro e novanta con quegli occhi blu così strani e difficili da leggere. Se finge, dovrebbe andare a Hollywood. Se non finge, ha nervi a prova (davvero) di bomba. Se è il mostro che molti dicono, dimentichiamo la banalità del male. Qui ci sarà tanto male ma banalità poca.
L’intervista di Fulvio Scaglione per il quotidiano Avvenire può essere letta a questo link.
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