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    “Dovrei aiutarli o continuare a fotografare?”: diario dall’inferno di Ghouta

    Le vittime nella parte orientale di Ghouta sono oltre 500. Credit: AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA

    Parla un corrispondente dell'agenzia di stampa francese AFP. Ecco il suo diario da Ghouta, in Siria, le sue sensazioni e le sue immagini

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 1 Mar. 2018 alle 18:53 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:42

    Dal 18 febbraio 2018, le forze del regime siriano hanno intensificato i bombardamenti nella parte orientale di Ghouta, in Siria, area in mano ai ribelli e che oggi è sotto assedio. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, finora oltre 550 civili sono morti, tra i quali 140 bambini.

    Il fotoreporter di guerra Abdulmonam Eassa, che lavora per l’agenzia di stampa francese AFP, ha raccontato attraverso un toccante diario di guerra, cosa sta accadendo a Ghouta, al centro della guerra civile siriana.

    Lunedì 19 febbraio 2018

    I bombardamenti sulla Ghouta orientale, oggi, hanno causato 127 morti.

    Oggi un razzo è caduto molto vicino a noi. Vado a dare un’occhiata. L’intera area sembra essere stata bruciata. Durante i primi secondi, pensi che nessuno sia morto, vedi solo cenere e distruzione. Questo perché le persone si nascondono non appena sentono il suono di un razzo o di un aereo. Ma dopo pochi secondi comici a vedere i primi segni di vita.

    Vedo una donna che esce da un edificio distrutto con quattro bambini. Stanno urlando. Uno dei bambini porta un taccuino o un libro, forse un Corano, non ricordo.

    I volontari della Protezione civile siriana noti come “elmetti bianchi” arrivano e iniziano a scavare tra le macerie. Vedo uno di loro che porta un bambino. Sono scioccato dal fatto che qualcuno così giovane sia stato ferito.

    Dovrei aiutarlo o continuare a fotografare? È una domanda che mi pongo continuamente.

    Leggi anche: “Questa guerra non ci ha lasciato più nulla, nemmeno i ricordi”: intervista a Riad Khadrawi, giovane siriano di Ghouta

    Continuo a scattare fotografie e guardo la mia macchina fotografica per vedere come sono uscite. All’improvviso vedo un mio cognato che mi fissa da una delle immagini. È in piedi vicino alla porta di un edificio, urlando per chiedere aiuto. È ferito, non mi ero nemmeno reso conto che fosse lui mentre scattavo la foto, solo dopo, quando ho controllato rapidamente lo scatto ci ho fatto caso. Cosa dovrei fare?

    Sto per andarmene quando vedo un dei Caschi bianchi, candidati a premio Nobel per la Pace nel 2006 (qui chi sono), trasportare un bambino. Mi rendo conto che è il figlio di un amico. Mi sbrigo e lo porto, correndo all’ospedale. Il bambino sembra tenermi stretto, non vuole lasciarmi andare. Quando entriamo voglio scattargli una foto, ma lui non vuole lasciarmi la mano. Riesco a liberare la mia mano, ma lui continua a tendere la sua mano verso di me. Riesco a sentire me stesso piangere.

    Dopo mezz’ora mi dirigo verso casa, a circa 700 metri di distanza. Dopo circa 200 metri, vedo che l’area in cui vivo è stata bombardata. Improvvisamente mi sale il panico. La mia famiglia vive lì! E se uno di loro fosse morto?

    Mi sbrigo e vedo che l’edificio in cui vivono le mie sorelle e altri parenti è stato colpito. È coperto di polvere e non riesco a vedere nulla. Più mi avvicino, più la paura si impossessa del mio corpo. Lascio la moto in mezzo alla strada e corro dentro casa. Vedo uno dei miei fratelli. “Mamma sta bene?”, chiedo. “Sì”, risponde.

    “Tutti gli altri stanno bene?”, chiedo. “Sì”, mi risponde. Sto per tirare un sospiro di sollievo quando mi accorgo di una figura stesa a terra con la coda dell’occhio. È un mio amico. Ha una ferita alla testa. È morto. Ma dobbiamo lasciare il suo corpo lì perché ci sono bambini feriti che devono essere portati in ospedale. Non riesco a scattare foto di scene come questa.

    Do un’occhiata dall’altra parte della strada. Vedo una donna che indossa un abito da preghiera. La sua faccia sta sanguinando. Improvvisamente mi rendo conto che è una delle mie sorelle. Altre due parenti sono in piedi accanto a lei, anch’esse ferite. Cerco di calmare mia sorella. Non indossa più le scarpe, quindi voglio portargliele, ma lei mi dice di non preoccuparmi, camminerà a piedi scalzi. Porto lei e gli altri all’ospedale, poi porto mia madre e altri fratelli a Daraya. Infine torno a dare un’occhiata alla nostra casa.

    Le porte e le finestre sono completamente distrutte. Do un’occhiata in giro e mi rendo conto che non mi interessa più la morte. C’è di nuovo un aereo nel cielo, un bombardamento potrebbe arrivare da un momento all’altro ma non ho paura. Sono stato ferito al punto in cui non posso più provare dolore.

    La mia famiglia trascorre la notte in un’altra casa. Nessuno dorme davvero. Mentre scrivo queste parole, riesco a sentire gli aerei nel cielo. L’edificio sta tremando. I pensieri continuano a scoppiarmi nella testa. Cosa accadrebbe se una persona che amo dovesse morire e io invece restassi vivo? Come sopporterò il dolore? Io mollo.

    Martedì 20 febbraio 2018

    Gli attacchi alla Ghouta orientale uccidono 128 civili, tra cui 29 bambini. Un altro ospedale, Arbin, è stato messo fuori combattimento.

    L’agenzia per l’infanzia delle Nazioni Unite UNICEF rilascia una dichiarazione: “Nessuna parola renderà giustizia ai bambini uccisi, alle loro madri, ai loro padri e ai loro cari”, dice.

    Credit: AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA

    Vado in ospedale perché so che la situazione è terribile. Nessuno ha mangiato per un giorno. Cammino in una stanza, è pieno di cadaveri. Alcuni sono morti ieri, alcuni anche prima ma non sono ancora stati seppelliti.

    Riesco a dormire per alcune ore in ospedale. So che tra poche ore inizierà la solita routine: aerei, bombardamenti, bombe, civili feriti, orrore. Ma sono ancora forte. Posso ancora uscire e fare foto. Non so come … Ma posso.

    Credit: AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA

    Mercoledì 21 febbraio 2018

    Il capo delle Nazioni Unite Antonio Guterres descrive ciò che sta accadendo nella Ghouta orientale come “l’inferno sulla terra”.

    Entriamo nel quartiere di Saqba dopo un bombardamento condotto con un barile-bomba. Una donna e i suoi figli stanno piangendo. Un uomo è bloccato tra le macerie di due muri di un edificio distrutto. Mentre siamo qui, a due strade di distanza, scoppia una seconda bomba. Non riesco a mettere a fuoco. Sembra che ci sia un’enorme nuvola sopra la mia testa …

    Dopo un po’ torno nel mio quartiere. Un aereo russo l’ha colpito. Le persone stanno urlando. Non sanno come affrontare una situazione come questa. Me ne rendo conto perché per lavoro seguo la morte e la distruzione. Mi avvicino a un edificio. Un ragazzo e una ragazza sono bloccati tra due muri di un edificio crollato. Vedo le loro gambe penzolare. Controllo l’area per accertarmi che sia sicura. Tiro fuori prima il ragazzo e poi anche la ragazza.

    Salgo sul tetto per avere una vista migliore. Tutto sta bruciando. Sembra che non ci siano zone non bombardate – Saqba, Misraba, Douma, Kafr Batna … sembra che l’intera area stia bruciando.

    I miei vicini gridano che ci sono altri bambini sotto le macerie. Metto via la macchina fotografica e mi dirigo dove mi indicano. A volte fotografo e talvolta aiuto a tirare fuori le persone. Non ho una formula fissa per quando faccio cosa.

    Credit: AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA
    Giovedì 22 febbraio 2018

    La cancelliera tedesca Angela Merkel chiede la fine del “massacro” in Siria. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU non approva una risoluzione sul cessate il fuoco a causa delle obiezioni della Russia, alleata del presidente siriano Bashar al-Assad.

    Sono passati quattro giorni da quando sono iniziati i bombardamenti. Tutti hanno paura.

    Mi sveglio alle 6:00 del mattino. C’è tranquillità. Ovunque c’è distruzione. La gente inizia a uscire dai rifugi, a controllare i danni e a cercare di procurarsi del cibo. Mezz’ora dopo c’è quel suono che tutti temono: un aereo nel cielo. Inizia il bombardamento. Le persone tornano ai loro rifugi.

    Ci sono così tante persone che mancano all’appello. Sembra che tutti stiano cercando i loro parenti. Alcuni sono morti, altri si nascondono, ma la comunicazione è difficile.

    Credit: AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA

    Non ho elettricità. Cerco di ricaricare le mie macchine fotografiche e il mio computer. Ho bisogno di loro, non posso lavorare senza.

    Gli ospedali hanno perso il conto del numero di morti e feriti. Alcune persone sono ancora bloccate sotto le macerie. I volontari della Protezione civile stanno facendo del loro meglio, ma non riescono a raggiungere alcune zone a causa dei bombardamenti.

    Il numero di martiri è salito a oltre 300. La situazione è così brutta. Dio ci aiuti.

    Sono le 15:00. Mentre registro questo messaggio, gli aerei non hanno mai smesso di bombardare. Nessuna area è stata risparmiata. Gli elmetti bianchi sono davvero in difficoltà. Molti dei loro veicoli sono danneggiati. È molto difficile.

    Venerdì 23 febbraio 2018

    Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite posticipa un voto su una tregua nella Ghouta orientale.

    Le persone si stanno rannicchiando nei rifugi. Tutti sono sotto shock. Non riusciamo più a capire nulla. Tutto è fuori servizio. Non posso credere al cambiamento che quattro giorni di bombardamento è riuscito a portare. L’intera area è differente, cancellata. Le strade non ci sono più. Sono pieni di polvere, macerie. Solo le ambulanze continua a percorrerle.

    Forse piangere non aiuta, ma oggi piango. Non riesco a dire altro.

    Per favore, qualcuno fermi la carneficina. Per favore, qualcuno deve fermare quello che sta succedendo qui!

    Ma la vita va avanti. Oggi tiriamo fuori quattro bambini da sotto un edificio completamente distrutto. Non dimenticherò mai le cose a cui ho assistito qui. Se sopravvivo.

    Sabato 24 febbraio, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione per il cessate il fuoco, che chiede “senza indugio” una tregua per consentire aiuti nell’area. Ma i raid aerei sono proseguiti e hanno provocato altre vittime. Lunedì (26 febbraio) la Russia ha annunciato una “pausa umanitaria” di cinque ore al giorno e corridoi per la partenza dei civili.

    Questo blog è stato scritto con Samar Hazboun a Nicosia e Yana Dlugy a Parigi.

    Credit: AFP PHOTO / ABDULMONAM EASSA

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