«Mi continuano a dire: “Signora, perché è così contenta? Sono solo pochi giorni di pausa”. Ma io rispondo che non importa, perché ho fiducia, una pausa può portare a un’altra e poi magari al cessate il fuoco totale». Queste sono le parole che continua a ripetere Sanaa Abdelrahman, un’insegnante di Gaza la cui casa è stata completamente distrutta durante le prime settimane di guerra.
Alle prime ore dell’alba, anche prima che la tregua entrasse in vigore nella Striscia il 24 novembre scorso, centinaia di palestinesi sfollati si sono riversati sulle strade per tornare alle proprie case e vedere cosa ne restava dopo sette settimane di attacchi israeliani.
«Con i miei figli ci siamo rifugiati in una scuola, appena abbiamo saputo dell’entrata in vigore della tregua abbiamo iniziato a spostarci verso il nostro quartiere. Siamo scappati di casa senza poterci portare dietro nulla, tranne i vestiti che avevamo addosso che non ci proteggono dal freddo. Siamo tornati a vedere se potevamo recuperare qualcosa», ci racconta. «Questa tregua è arrivata troppo tardi, perché Gaza si è trasformata in una città fantasma, e io e la mia famiglia non abbiamo più un posto dove tornare. Mio suocero e mio marito avevano ricostruito la nostra casa con tanti sacrifici, dopo l’ultima guerra. Ora di nuovo non ne rimane più nulla. Non abbiamo più ricordi, dove andrò a questa età? Dove sono le foto dei miei figli da piccoli?».
Calvario infinito
L’esercito israeliano ha impedito agli sfollati dal Nord al Sud della Striscia di ritornare a casa durante la tregua, perché «la guerra non è ancora finita».
«Durante il tragitto per tornare, nonostante la tregua, ci hanno sparato. Sono morte due persone e ci sono stati diversi feriti. Gli aerei da guerra israeliani ci lanciavano volantini avvertendoci di non tornare», aggiunge l’insegnante palestinese. «Sui volantini c’era scritto: “La guerra non è ancora finita, tornare al Nord è proibito e pericoloso. Il vostro destino e quello delle vostre famiglie sono nelle vostre mani”».
Secondo gli accordi, Israele ha sospeso tutte le azioni militari a Gaza per sei giorni e avrebbe dovuto consentire l’ingresso nel territorio di centinaia di camion per il trasporto di aiuti umanitari, medicine e carburante. La guerra ha provocato oltre un milione e 600 mila sfollati tra la popolazione della Striscia, su 2,4 milioni di residenti. Nel frattempo, Israele ha implementato il blocco imposto dal 2007 tagliando acqua, elettricità, cibo e carburante, cosa che ha causato una sempre più grave crisi umanitaria, soprattutto alla luce dell’ingresso dei pochi aiuti arrivati nella Striscia.
Tutti in fila
«La nostra vita è diventata una questione di “file”: per procurarci il pane dobbiamo stare in fila ore e ore, così come per l’acqua e le medicine», prosegue Sanaa Abdelrahman. «Gli aiuti che arrivano non ci bastano. È una catastrofe, nessuno si può immaginare cosa stiamo vivendo».
Durante la guerra l’uso sproporzionato della forza militare a Gaza viene presentato da Israele come un mezzo legittimo per distruggere Hamas ma più di un terzo dei massacrati sono bambini. Gli altri che non muoiono vivono nel terrore. I genitori, come Sanaa, cercano di trovare un modo per calmare i propri figli dai bombardamenti e dalla distruzione che li circonda.
«Tutta la nostra vita è guerra e tragedia. Sin dalla mia nascita, ogni momento e ogni giorno siamo colpiti da assedi, guerre e ingiustizie, speravo in un futuro migliore almeno per le mie figlie, speravo che non avrebbero mai attraversato la mia stessa esperienza. Ma purtroppo non è stato così», conclude. «Mia figlia maggiore continua a dirmi: “Voglio solo vivere come tutti gli altri bambini. Mi mancano la mia scuola, i miei amici e la mia maestra”. Eppure, nonostante tutto, ho fiducia nel futuro e in Dio. Spero che si laureino all’università e vivano una vita felice. Anche se gli è stata rubata l’infanzia».
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