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    Diario da Gaza: “Prima era una prigione a cielo aperto, ora è diventata una fossa comune”

    Credit: AP Photo

    In esclusiva per TPI il racconto choc di Muhammad El Hijazi dalla Striscia: “Siamo quasi senz’acqua, cibo, carburante e medicine. Ma non importa a nessuno”

    Di Amani Sadat
    Pubblicato il 24 Nov. 2023 alle 08:00

    Se la guerra attualmente in corso a Gaza fosse come tutte le precedenti probabilmente ora assisteremmo a un cessate il fuoco, alla possibilità per i parenti di chi è stato ucciso di poter finalmente seppellire i propri cari mentre Israele discuterebbe con le Nazioni Unite su quanto cemento potrebbe essere portato nella Striscia per la ricostruzione. Ma non è così. Intere famiglie sterminate, migliaia e migliaia di feriti lasciati senza ospedali e un milione di sfollati. Tutto questo ci fa pensare a una sola cosa, una punizione collettiva contro gli abitanti di Gaza, sotto la costante minaccia di attacchi aerei, con poco cibo, acqua e senza accesso alle cure mediche. Coloro che vivono a Gaza sono stremati dalla guerra, dalle perdite e dai continui spostamenti.

    Muhammad El Hijazi ha 32 anni e ha studiato giurisprudenza in Libano per poi tornare a vivere a Gaza, solo un anno fa. «Da quando è cominciata la guerra io e la mia famiglia ci siamo spostati tre volte. Gli attacchi aerei sono ovunque, poco fa ci sono stati pesanti bombardamenti di artiglieria vicino al quartiere dove ci siamo spostati due giorni fa» ci racconta. «Gli aerei stanno bombardando più case e infrastrutture possibili, distruggendo ogni traccia di vita nella Striscia di Gaza, le strade sono pieni di corpi e feriti. Gaza da prigione a cielo aperto è diventata una fossa comune per noi palestinesi».

    Prima della guerra la condizione di vita dei palestinesi di Gaza era di isolamento dal resto del mondo. Si parlava della Striscia come la più grande prigione a cielo aperto senza vie di fuga.

    Senza via d’uscita
    «Il blocco, prima della guerra, penetrava praticamente ogni aspetto della nostra vita quotidiana, dalla libertà di movimento alla possibilità di accedere a opportunità educative o professionali, cercare cure mediche o visitare parenti altrove. Le autorità israeliane impedivano alla maggior parte degli abitanti di Gaza di viaggiare anche solo per studiare all’estero, fare vacanze, attività che la maggior parte delle persone dà per scontate, ma per noi sono privilegi. Prima di poter uscire da Gaza per fare il mio dottorato in Libano, mi ci sono voluti due lunghi anni, mi è stato respinto il permesso di viaggiare due volte. Sono rimasto in Libano per un anno senza poter tornare a Gaza a trovare la mia famiglia, perché ero a conoscenza delle difficoltà e delle umiliazioni del viaggio. Quando passavamo il valico di Rafah potevamo stare giorni nelle prigioni egiziane prima di essere “accompagnati” dalla polizia in aeroporto dove anche lì rischiavamo di rimanere confinati per giorni, prima di poter partire per la nostra meta finale. Interrogatori su interrogatori perché chi ha meno di 60 anni è considerato un “potenziale terrorista”».

    Vite impossibili
    Con l’intensificarsi dei bombardamenti la già difficile vita quotidiana dei palestinesi a Gaza è diventata impossibile. Non c’è quasi più elettricità, ed è ancora più difficile accedere a beni di prima necessità come acqua, cibo e medicine.

    «Stiamo rimanendo senza acqua, cibo, carburante e medicine. Le nostre case sono state distrutte; le nostre famiglie anche. Non conto più quanti cari ho perso dall’inizio della guerra. Forse loro sono in un posto migliore, non più nell’inferno. Non abbiamo più abbastanza acqua potabile e quella che abbiamo viene razionata al minimo, la maggior parte del giorno non abbiamo elettricità. Ci hanno tagliato fuori dal mondo, togliendoci la connessione Internet per giorni. Non riuscivamo a connetterci e rassicurare i nostri cari che si trovano fuori da Gaza. Durante il blackout sono morti i genitori di un mio amico, che vive in Qatar. Per giorni non sono riuscito ad avvertirlo».

    Al di là della cruda conta delle vittime, dei lutti e delle sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, manca la speranza che tutto questo finisca. 

    «Sono sicuro che tutto questo non finirà presto. È come se fossimo sicuri di morire ma senza sapere quando. Se in una qualsiasi altra parte del modo fossero stati trucidati 5.000 bambini in un mese, sicuramente la cosiddetta comunità internazionale si sarebbe mossa per far finire questa mattanza, questa vendetta. Perché in questo caso non succede? Me lo chiedo tutti i giorni. Penso che nessuno intervenga perché non siamo bianchi, perché siamo musulmani e perché siamo figli di uno Stato minore che per il mondo di fatto non esiste più. Gaza è diventata un cimitero per bambini. Israele, imperterrito, continua a macellare approfittando della complicità degli Stati Uniti e dell’Europa. Ci parlano di pause “umanitarie”. Pause umanitarie per cosa? Per creare altre migliaia di profughi senza cure e senza aiuti? Dov’è l’umanità in tutto questo?».

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