Troppo spesso, quando si tratta il tema dell’immigrazione, si scade in facili generalizzazioni che non rendono giustizia alla verità storica, oppure si cade in analisi geopolitiche che, pur nell’affrontare questioni decisamente fondamentali, perdono di vista però la concretezza della quotidianità, e del dramma che questa quotidianità si porta dietro.
La riflessione che perde di vista la pratica.
Nel caso in questione la pratica, la quotidianità è spesso disagio, miseria, emarginazione sociale, guerre, emergenze alimentari, emergenze sanitarie, sete.
Leggere, ascoltare, saper mettersi in ascolto di queste storie è necessario allora al fine di non perdere di vista quel minimo senso di umanità, che rischia di degenerare, altrimenti, in questo fascismo di ritorno che la storia recente di questi giorni ci sta raccontando..
L’infezione del fascismo come lo ha definito uno dei massimi storici contemporanei.
“I diari di Raqqa. Vita quotidiana sotto l’Isis” (Mimesis editore) è allora proprio questo. Il racconto, un racconto quotidiano di un giovane ragazzo costretto, come gran parte della popolazione civile, a subire il dramma della guerra e dell’occupazione delle truppe del sedicente Stato islamico.
Ma è anche un forte messaggio di sfida.
A Raqqa, capitale de facto dell’Isis, ogni cosa è difficile, e molte sono quelle proibite. Vedere la televisione è proibito. Proibita è ogni libertà di immagine e di parola, come riporta la quarta di copertina di questo piccolo libro edito da Mimesis nel luglio del 2017.
Tradotto dall’inglese da Giampaolo Cadalanu, giornalista de la Repubblica, il libro si presenta come un libro di fumetti, un graphic novel; le belle illustrazioni sono state realizzate da Statt Cohl.
Ma di ingenuo c’è ben poco. C’è anzi la perdita della ingenuità di questo ragazzo, Samer, e il rischio concreto quotidiano, reale, percepito, di rischiare la sua vita e della sua famiglia, pur di raccontare, di tentare di raccontare la vita all’interno delle mura della città, isolata da tutto e tutti.
La pena è la decapitazione, come accade a molti dei suoi amici e colleghi.
Il racconto di Samer è allora la voce diretta di un popolo, la voce diretta per comprendere cosa sia stato l’ Isis soprattutto nei confronti della popolazione civile, che ha vissuto sotto lo stretto controllo, sotto il gioco di umiliazioni, sotto il controllo del fanatismo di questi uomini.
“Ecco lo stato islamico è stato questa concretezza fanatica, dove le norme sono incomprensibili e fuori dal mondo, sono allo stesso tempo indiscutibili per la gente normale e non applicabili per i miliziani dell’organizzazione”, scrive Cadalanu nella introduzione.
Queste parole di Samer sono la richiesta di una vita normale, di una quotidianità senza paura e senza la paura di subire tormenti, torture fisiche e psicologiche. Ma sono anche la testimonianza che l’Islam, il vero Islam non sia quello dell’Isis.
Mike Thomson, il giornalista inviato dei servizi esteri della BBC, che ha curato questo piccolo e intenso libro, e che ho sentito proprio per uno scambio su questa esperienza ha scritto “(…) mi sono chiesto che cosa spinga una persona a raccontare, come ha fatto Samer. Lui sapeva che così avrebbe messo a rischio non solo se stesso, ma anche le persone a lui care. La risposta è evidente nei suoi diari. Dopo aver visto amici e parenti massacrati, la vita della sua comunità a pezzi e l’economia locale distrutta dagli estremisti, il nostro coraggioso diarista ha pensato che raccontare al mondo quello che stava accadendo alla sua amata città potesse essere il suo modo di reagire. Le parole di Samer mi hanno colpito profondamente. (…) è come se la sua famiglia sia diventata la mia famiglia, i suoi amici miei amici, il suo spaventoso mondo anche mio”.
Il racconto prende il via dai primi di marzo del 2013, quando le truppe dei miliziani fanno la loro comparsa in città. É immediata la presa di consapevolezza, dopo le prime sommarie esecuzioni, da parte di Samer, e di gran parte della popolazione, che i miliziani “non c’entrano nulla con l’Islam”, ma che, al contrario rappresentano il rischio concreto e tangibile di essere riportati a un’epoca “buia”.
Ogni parola di Samer è il racconto di stupore, rabbia, pericoli, tristezza. É il racconto degli sguardi degli uomini e delle donne della sua città, di fronte alle prime immediate violenze quotidiane. “Senza pietà nè umanità mi hanno frustato. Ho visto nei suoi occhi che ne era orgoglioso”.
Le parole di Samer ci mostrano, ci fanno toccare con mano, ci fanno vedere con gli occhi di un giovane uomo le sofferenze quotidiane, gli orrendi crimini compiuti contro persone disarmate e allo stesso tempo l’indifferenza della comunità internazionale verso questi crimini.
Samer racconta però anche delle residue speranze e della forza di un popolo che non si piega, non del tutto, alla devastante violenza dei miliziani. Alle torture , alle decapitazioni sommarie, alle intimidazioni, alle umiliazioni.
Ogni cittadino della capitale dell’Isis non è sfuggito a questa violenza. “(…)mia madre è felice solo che sia tornato a casa, senza essere stato arrestato o ucciso”, scrive.
“(…)ogni musulmano autentico vedendo quello che questi uomini di Daesh, sa che razza di bugiardi siano. Non commettono solo delitti contro di noi, ma compiono crimini contro la nostra amata regione”, scrive ancora, “(…)voglio convincerci che ci sbagliamo. Che loro sono veri musulmani”.
Ogni giorno raccontato di questo diario è un peggioramento.
Queste pagine sono allora la voglia e la necessità di smascherare questi tremendi crimini commessi contro il popolo siriano, ma sono anche la certificazione della importanza di una informazione libera e indipendente. Di una informazione che cerca di far capire, di raccontare cosa stia accadendo davvero.
Le parole di Samer dicono anche della sua determinatezza, di giovane uomo, che si impegna a rischio della vita, per combattere questo gruppo di criminali e a combattere ciò che hanno fatto al suo quotidiano, ai suoi sogni, al suo modo di vivere. Suo e di tutto il popolo.
“(…)voglio liberarmi di questa preoccupazione costante. Desidero disperatamente di nuovo la mia tranquillità (…)”.
Il finale racconta di quella fuga che si diceva all’inizio. Una delle tante fughe dalla guerra e dalla miseria. In un campo affollato di profughi soli, abbandonati disperati vivi coraggiosi deboli persi tra paesi in guerra. Qui come altrove.
Lasciare di notte, di corsa, con la paura addosso e il terrore per sè e per chi resta, lasciare la propria madre, i fratelli, gli amici, non è quasi mai una scelta. É più spesso una necessità, un bisogno.
E Samer ce lo racconta con le sue semplici parole.
Questo libro importante è una dedica a tutti gli attivisti per una informazione libera, in Siria.
Come altrove.
* A cura di Giancarlo Capozzoli
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