Peter Humphrey, un investigatore privato britannico che lavorava per conto di aziende internazionali, ha trascorso quasi due anni in una prigione cinese, quella di Qingpu, situata nella periferia di Shanghai, e ha documentato il suo calvario in un resoconto redatto per il Financial Times.
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Le sue rivelazioni si concentrano soprattutto sulle condizioni cupe e disumane che ha dovuto sopportare per diversi mesi dal 2014 al 2015, ma rivelano inoltre dettagli allarmanti su alcune aziende internazionali che fabbricano i loro prodotti in Cina.
Secondo quanto raccontato da Humphrey, in quella prigione della periferia di Shanghai si porta avanti un vero e proprio business: i detenuti confezionano abiti per i giganti dell’abbigliamento come H&M e C&A.
“Le mattine, i pomeriggi e spesso anche dopo pranzo, i prigionieri lavorano nelle sale comuni. I nostri uomini hanno confezionato parti per l’imballaggio dei vestiti. Ho riconosciuto i loghi di marchi noti come H&M”, racconta Humphrey.
Secondo l’investigatore, comunque, le aziende potrebbero non essere consapevoli del fatto che il lavoro carcerario rientri nella loro catena di approvvigionamento.
“Gli stranieri che lavoravano nella mia sezione erano africani e asiatici, spesso con problemi economici, cui nessun familiare inviava soldi. Lavorare è l’unico modo per comprare articoli per la pulizia personale e snack. Lavorando a tempo pieno hanno guadagnato circa 120 yuan (che corrisponde a circa 15 euro) al mese”, prosegue Humphrey.
Il lavoro carcerario di per sé non viola le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Come indica Humphrey, i prigionieri stranieri sono stati pagati e non sembrava fossero costretti a lavorare.
Non è chiaro se anche i prigionieri cinesi siano stati pagati per il loro lavoro, così come i prodotti realizzati per i diversi brand.
Molti marchi internazionali non consentono il lavoro carcerario nelle loro catene di approvvigionamento, poiché la cosa può pericolosamente accostarsi al lavoro forzato, motivo per cui l’Organizzazione internazionale del lavoro mantiene chiare le linee guida su quando la pratica è accettata.
Spesso le marche appaltano il lavoro a una fabbrica e quella azienda a sua volta subappalta il lavoro a un’altra fabbrica. L’industria dell’abbigliamento del Bangladesh è famosa per questo, ma è noto che la stessa situazione si sta verificando in vari paesi, tra cui la Cina.
Alcune aziende cinesi sono state segnalate per subappaltare il lavoro oltre confine in Corea del Nord, quindi applicare tag “Made in China” agli articoli che vengono realizzati in Cina.
H&M richiede ai suoi fornitori di firmare un impegno che dice esplicitamente “il lavoro forzato, il carcere o il lavoro illegale non è accettato”.
Alla domanda circa le accuse di Humphrey, un portavoce di H&M ha detto: “A nostra conoscenza, non ci sono stati violazioni. Ma ovviamente prendiamo molto sul serio le informazioni pubblicate dal Financial Times”.
Il portavoce ha anche ammesso che in passato è circolata la notizia di detenuti cinesi che hanno lavorato per aziende terze appartenenti alla loro catena di approvvigionamento, e la società ha ricordato ai suoi fornitori cinesi che le disposizioni in materia di lavoro carcerario sono non negoziabili.
Il mancato rispetto delle nostre regole “comporterebbe la risoluzione definitiva del nostro contratto commerciale”, ha affermato il portavoce.
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