Ankara, inizio giugno. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan parlava di fronte a un pubblico composto da membri del suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) e la sua voce rimbombava tra le pareti di legno scuro della Grande Assemblea nazionale della Turchia.
«Stiamo entrando in una nuova fase in Siria nell’ambito della nostra decisione di creare una zona sicura profonda 30 chilometri», affermò. «Stiamo per liberare Tel Rifat e Manbij dai terroristi. Poi faremo lo stesso, passo dopo passo, in altre regioni. Guardiamo a queste legittime misure di sicurezza per la Turchia e vedremo chi ci sosterrà e chi ci ostacolerà». La sala esplose in un applauso. Da allora in Siria, a oltre 500 chilometri di distanza, nella già citata Manbij, 800mila persone provano un profondo senso di paura per l’annuncio che presto saranno “liberate dal terrorismo”.
La città, che sorge a ovest del fiume Eufrate a circa 35 chilometri dal confine turco, è un vivace centro industriale nel nord del Paese arabo ed è antichissima. Basti pensare che i primi cenni della sua esistenza si riscontrano in reperti risalenti al IX secolo a.C.
Nel corso della sua storia, Manbij ha conosciuto molti conquistatori: dagli antichi aramei ai romani, dai califfi arabi fino all’impero ottomano, finendo poi per far parte della Repubblica araba di Siria, sino allo scoppio della guerra civile nel 2011.
Sebbene a maggioranza araba, la città vanta da tempo una popolazione muti-etnica che include arabi, curdi, circassi e turcomanni. È proprio questo, secondo il portavoce del Consiglio militare di Manbij Shervan Darwish, uno dei principali motivi per cui Erdogan tiene gli occhi puntati sulla regione. «Manbij è un luogo importante. È stata una delle prime aree attraverso cui il sedicente Stato Islamico (Isis) è penetrato in Siria», spiega Darwish a TPI. «Per un po’ è stata come una piccola Londra. Contava moltissimi abitanti e in più si trova lungo l’autostrada internazionale (che porta in Turchia, ndr)».
Il Consiglio militare di Manbij (Mmc) è un gruppo multietnico parte delle Forze democratiche siriane (Sdf), la milizia incaricata della difesa delle regioni governate dall’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale. Nel 2016, le Sdf hanno strappato questo importante centro al sedicente Stato Islamico, che la controllava sin dal gennaio del 2014.
Anche prima dell’operazione lanciata dalle Sdf per cacciare l’Isis da Manbij, le autorità turche manifestavano un forte disagio per la partecipazione alla battaglia delle Unità di protezione del popolo curdo (Ypg), la punta di diamante delle Sdf, a guida curda. Ankara, che allo stesso tempo conduceva a ovest le proprie operazioni militari per conquistare il territorio siriano tra Jarablus e al-Bab, considera le Ypg l’ala siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e ha inserito entrambe le formazioni nell’elenco delle organizzazioni terroristiche.
«Le Ypg ci hanno aiutato a liberare Manbij dall’Isis e poi hanno lasciato la regione. Alcuni di loro sono rimasti per addestrare le nostre forze e sostenerci per un paio di mesi, ma poi se ne sono andati», ribadisce Darwish a TPI. Infatti, già nell’agosto del 2016, il Consiglio militare di Manbij aveva annunciato di aver completamente sostituito le Sdf nel gestire la sicurezza a Manbij e nelle campagne circostanti.
È significativo che Erdogan, nel suo discorso pronunciato il 1 giugno scorso davanti al suo partito, abbia definito la presunta minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia proveniente da Manbij come imputabile a dei generici “terroristi”. Alla luce di quanto avvenuto sul campo ormai ben sei anni fa infatti, non può più sfruttare la presenza delle Ypg per legittimare una prossima invasione della regione.
Non solo. Il presidente turco ha anche giustificato un potenziale attacco turco affermando che «i curdi occupano una terra a maggioranza araba». «Quando Manbij sarà evacuata, non vi entreremo in nome della Turchia», disse Erdogan in un discorso tenuto durante l’invasione turca lanciata nel nord-est della Siria nel 2019. «I nostri fratelli arabi, che sono i veri proprietari di quelle terre, e le tribù vi faranno ritorno». A Manbij e nelle campagne circostanti vivono attualmente 64 tribù arabe, che in alcune occasioni si sono scontrate con l’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale. Nel giugno del 2021, ad esempio, in città sono scoppiate una serie di proteste contro la coscrizione obbligatoria, che hanno provocato un morto e tre feriti. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, i rappresentanti delle tribù si dicono tutto sommato soddisfatti dell’attuale governo locale.
«L’Amministrazione autonoma non può essere sostituita, perché sono i nostri figli a guidare la comunità e tutte le istituzioni», spiega a TPI Muhammad Sadiq al-Asaidi, rappresentante del Consiglio dei notabili di Manbij.
Erdogan afferma inoltre che le Sdf e le Ypg lanciano spesso attacchi diretti contro la Turchia e le aree occupate dalle truppe turche in Siria, ponendo una minaccia diretta alla sua sicurezza nazionale.
I dati sugli scontri armati mostrano però che questa narrativa non corrisponde alla realtà. In un articolo intitolato “Threats Perceived and Real” pubblicato nel maggio dello scorso anno dal Wilson Center, la ricercatrice dell’Università americana del Cairo, Amy Austin Holmes, ha calcolato che dal 2017 al 2020 le forze armate di Ankara e le milizie filo-turche presenti in Siria hanno lanciato un totale di 3.572 attacchi nel nord-est della Siria. Per contro, sono state verificate in maniera indipendente solo 12 operazioni effettuate dalle Sdf e dai loro affiliati contro le forze turche, tutte compiute durante l’invasione lanciata da Ankara nel 2019 contro le città curdo-siriane di Sere Kaniye e Tel Abyad.
Alle evidenze emerse da questi dati, Darwish commenta a TPI: «Non abbiamo mai rappresentato una minaccia per loro, ma vogliono usare questa scusa per attaccarci». Dall’ottobre del 2021 al giugno del 2022, tra colpi di artiglieria, bombardamenti con droni e armi pesanti e tentativi di infiltrazione armata, le forze turche e le milizie filo-Ankara hanno condotto un totale di 1.664 attacchi a Manbij, provocando la morte di 6 civili e il ferimento di altre 13 persone.
Dietro la potenziale invasione turca si nasconde un’altra grave minaccia per la sicurezza non solo della Siria, ma del mondo intero: il ritorno dell’Isis.
In una conferenza stampa del 16 luglio scorso, il comandante in capo delle Sdf, Mazloum Abdi, ha annunciato che, in caso di attacco da parte di Ankara, «il lavoro che le nostre forze hanno svolto insieme alla Coalizione contro l’Isis andrà in frantumi». «Le nostre forze non possono combattere contemporaneamente su due fronti», ha sottolineato Abdi, aggiungendo che tra maggio e giugno il numero di raid effettuati contro l’Isis è sceso da 73 a 30 a causa della necessità delle Sdf di difendersi dalla Turchia.
«Il sedicente Stato Islamico aspetta proprio un’occasione come questa», rimarca Darwish a TPI. «Tutti sanno che l’Isis è più forte e meglio organizzato nelle zone occupate dalla Turchia. Tutti i loro comandanti più alti in grado sono stati uccisi in quelle aree: ce ne sono centinaia in quelle zone».
Soltanto negli ultimi tre anni, tutti e quattro i principali leader dell’Isis uccisi in Siria dai raid aerei della Coalizione internazionale a guida statunitense si nascondevano nelle zone del Paese arabo controllate dai turchi.
Tuttavia, se il possibile ritorno dell’Isis e un eventuale confronto militare in prima linea conquistano le prime pagine dei media di tutto il mondo, spesso viene dimenticato il costo in termini di vite umane di una tale invasione. Eppure la popolazione di Manbij avverte che un attacco da parte della Turchia provocherebbe una crisi umanitaria di proporzioni enormi.
Una catastrofe umanitaria
Per chi contribuisce al fiorente movimento femminile a Manbij, un’occupazione da parte della Turchia potrebbe significare la fine dei risultati ottenuti durante un’intera vita di lotte.
«Mia sorella ed io stavamo visitando alcuni parenti quando due combattenti dell’Isis ci hanno seguite e ci hanno imposto di seguirli alla Commissione matrimoniale per sposarli. Allora le donne erano costrette a questo genere di matrimoni”, ricorda a TPI Nisreen al-Ali, portavoce della Zenobia Women’s Organization di Manbij. Ed è proprio questo, aggiunge, che l’ha spinta a lavorare per la difesa dei diritti delle donne.
«La Turchia prenderà di mira le leader e le attiviste per i diritti femminili», denuncia. «Se Ankara dovesse occupare Manbij, la Zenobia Women’s Organization non sarà più in grado di operare e di proseguire la nostra lotta». Anche le ricadute economiche sarebbero devastanti. La città è il principale centro commerciale di tutto il nord-est della Siria e insiste all’incrocio tra i territori controllati dal regime siriano, quelli conquistati dall’opposizione e quelli dall’Amministrazione autonoma a guida curda. Dopo che la città è stata riconquistata dall’Isis, il commercio, che durante il regno del gruppo terroristico si era quasi bloccato, è ripreso.
«Abbiamo assistito a una rinascita economica», racconta a a TPI un commerciante arabo di Manbij, che ha ci chiesto di restare anonimo per motivi di sicurezza. «Gli spostamenti urbani, gli scambi commerciali e la situazione generale in città erano perfetti ma da quando è cominciata la minaccia turca, la situazione è peggiorata di giorno in giorno. Io commercio in generi alimentari e negli ultimi due giorni mi sono rifornito solo di beni sufficienti al consumo quotidiano, anche se avevo abbastanza scorte per due o tre mesi». Molti dei suoi amici commercianti e alcuni industriali di Manbij, aggiunge, hanno spostato le proprie scorte e attività a Raqqa.
«Se la Turchia dovesse occupare Manbij, me ne andrò, perché nelle aree controllate dalle milizie sostenute da Ankara abbiamo assistito a rapine, rapimenti e saccheggi: non c’è vita in tali circostanze», prosegue riferendosi alle notizie sui crimini commessi dalle milizie filo-turche durante le invasioni del 2018 e del 2019 nel nord della Siria. «Inoltre, se prenderanno il controllo della città, gli scambi commerciali a est dell’Eufrate saranno paralizzati, il che provocherà una crisi umanitaria», conclude. Tra aprile e giugno, rivela a TPI una fonte rimasta anonima per motivi di sicurezza ma ben informata sugli scambi economici nella regione, l’importazione di ortaggi dalle aree controllate dall’opposizione attraverso Manbij è diminuita del 10 per cento mentre l’import di riso è diminuito del 70 per cento e quello di mangimi per animali è calato del 93 per cento.
Ma la crisi umanitaria colpirà ancora di più di quella economica. Quasi 800mila persone, compresi 200mila sfollati provenienti da altre zone della Siria, vivono nella regione di Manbij. È probabile che qualsiasi attacco provocherebbe una massiccia ondata di sfollati all’interno e all’esterno della Siria. Avendo già acquisito una preziosa esperienza durante le precedenti invasioni turche del 2018 e del 2019, le Sdf e le milizie loro alleate sono preparate al peggio.
Anche le forze del regime siriano hanno schierato un maggior numero di soldati e trasferito armi pesanti e artiglieria antiaerea nelle regioni vicine a Manbij sotto il loro controllo, nonostante i funzionari delle Sdf affermino che la collaborazione con Damasco rappresenti una semplice alleanza militare temporanea e che non riflette in alcun modo un cambiamento della situazione politica. Nonostante molti fuggiranno di fronte all’avanzata delle forze turche a Manbij, è probabile che molti altri rimarranno a combattere. A cominciare dalle donne. Le attiviste della Zenobia Women’s Organization, rivela a TPI Nisreen al-Ali, hanno iniziato ad addestrarsi all’uso delle armi in caso di invasione turca. Non solo: dall’inizio della recente ondata di minacce provenienti da Ankara, tante nuove reclute si sono presentate al Consiglio militare di Manbij per entrare nell’esercito.
In caso di un attacco turco, ci spiega Muhammad Saqid al-Asaidi, «moriremo». «Per conquistare questa terra, Erdogan dovrà passare sui nostri cadaveri», conclude. Ma è Shervan Darwish a riassumere il clima che aleggia nel Consiglio militare di Manbij e tra chi è pronto a difendere la città: «La resistenza sarà massiccia, perché non abbiamo altra via».