Sono centinaia i morti provocati dalle proteste e dalle successive azioni di repressione da parte del governo dell’Etiopia, una nazione che negli ultimi mesi ha affrontato una grave crisi politica.
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La situazione nel paese africano sta degenerando, con il governo che ha dichiarato lo stato di emergenza dopo che il primo ministro, Hailemariam Desalegn, si è dimesso a sorpresa il 15 febbraio.
Da gennaio sono stati rilasciati più di 6mila prigionieri politici per tentare di promuovere il dialogo e la stabilità nel paese, ma questo non è bastato per placare le manifestazioni, nella capitale Addis Abeba, da parte di chi chiede la scarcerazione di tutti i dissidenti.
“Considero le mie dimissioni vitali nel tentativo di portare avanti riforme che portino alla pace e ad una democrazia sostenibile”, ha dichiarato l’ex premier Desalegn.
Agli occhi di alcuni osservatori, le dimissioni di Desalegn sono il risultato della mancata volontà del governo di affrontare il malcontento di una larga parte del popolo etiope.
Le popolazioni di Amhara e Oromo, che formano due dei più grandi gruppi etnici etiopi, da lungo tempo lamentano di non essere rappresentate dal governo, chiedendo una maggiore autonomia.
“L’ultimo stato di emergenza in Etiopia, il secondo in due anni, è una conseguenza di repressioni durate a lungo, e sempre più insostenibili”, ha detto a Newsweek Jeffrey Smith, direttore esecutivo dell’associazione Vanguard Africa.
Le proteste sono iniziate ad Oromia alla fine del 2015, con gli agricoltori preoccupati per la volontà di aumentare le dimensioni del territorio di Addis Abeba, con conseguenti sgomberi forzati e perdita di terreni agricoli.
Le manifestazioni si sono poi diffuse nella regione di Amhara.
Le agitazioni sono proseguite per tutto il 2016, con il governo che ha dichiarato uno stato di emergenza di sei mesi per affrontare i disordini, prorogato ulteriormente di quattro mesi a marzo 2017.
Il governo è stato accusato di usare lo stato di emergenza per reprimere le proteste, limitando le libertà e bandendo alcuni media, come quelli di Oromia.
La reazione dello stato ai disordini ha provocato la morte di almeno 669 persone, una cifra confermata dal governo in un rapporto pubblicato ad aprile 2017.
Il 19 febbraio 2018 è stato implementato lo stato di emergenza.
Secondo il governo queste misure sono necessarie per garantire la libertà di movimento e i diritti dei cittadini, impegnandosi a proteggere le imprese e le istituzioni pubbliche e ad assicurare il rispetto dei diritti umani.
Lo stato di emergenza non ha tuttavia impedito al popolo etiope di manifestare e scendere in piazza.
Secondo i media locali, il 19 febbraio aziende e edifici pubblici sono rimasti chiusi per via di uno sciopero avvenuto nella città di Gondar, nello stato di Amhara.
“Sembra poco giustificato un altro stato di emergenza e rischia di far precipitare l’Etiopia in ulteriori crisi”, ha detto a Newsweek Felix Horne, dell’Etiopia and Eritrea Researcher presso Human Rights Watch.
“Uno stato di emergenza, che comporta l’ulteriore restringimento dello spazio politico, porterà solo a maggiori rimostranze e più rabbia da parte dei cittadini”, ha detto Horne.