I colpi d’arma da fuoco che hanno sancito l’inizio degli scontri a Beirut la scorsa settimana si sentivano persino dal Palazzo di Giustizia, dove quasi 200 dimostranti vestiti di nero si erano raccolti per protestare contro il giudice incaricato delle indagini sull’esplosione che nell’agosto del 2020 devastò il porto e gran parte della capitale, provocando centinaia di vittime.
L’intensificarsi del rumore assordante degli spari ha portato i manifestanti a riversarsi in strada, persino di corsa, per raggiungere l’epicentro degli scontri. «La situazione sta diventando pericolosa», ha raccontato a TPI un uomo che a passo svelto seguiva il corteo, in marcia a ritmo di canzoni politico-religiose sciite.
Quella che avrebbe dovuto essere una protesta di piazza si è trasformata in uno spargimento di sangue, che nella memoria dei libanesi ha fatto riaffiorare gli spettri di una guerra civile lacerante durata 15 anni (1975-1990). E la ricerca della verità e della giustizia per mettere sotto accusa i responsabili dell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 potrebbe ora innescare una crisi politica con derive settarie.
Il casus belli è un giudice, Tarek Bitar, 47 anni, che dirige l’inchiesta. E proprio per chiederne la rimozione dall’incarico che giovedì 14 ottobre i sostenitori dei partiti musulmani sciiti Hezbollah e Amal erano scesi in piazza…
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