“Barinas, come tutti i paesini caldi del Venezuela, era orribile. La città era tappezzata di propaganda elettorale anacronistica. Sotto un semaforo che non funzionava ho letto la consegna ‘Pa’ lante’ (Avanti) con la foto, su uno sfondo verde, di un grassoccio chiamato Oswaldo Álvarez Paz. Le strade sabbiose erano piene di spazzatura. I tombini erano fontane dalle quali, al posto di dee nude, gruppi di mendicanti sputavano acqua sporca. […] Ho visto posti brutti nel mondo ma, poche volte, ho visto qualcosa più disgustoso di quella Barinas”.
In questo estratto del romanzo “Blue Label/Etiqueta Azul” di Eduardo Sánchez Rugeles (El Nacional, 2010) è descritta la provincia venezuelana. All’epoca la crisi economica si era fatta sentire, ma non si era ancora tradotta in crisi umanitaria. Come ora.
Nel 2016 l’economia venezuelana sta letteralmente implodendo. Secondo il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, l’inflazione è di circa l’800 per cento.
Chi non volesse prendere come riferimenti organizzazioni internazionali considerate da alcuni “capitaliste e selvagge”, basta guardare gli indici ufficiali degli istituti di statistiche e della Banca centrale del Venezuela e la cifra resta sempre a tre cifre: il 200 per cento.
José G. Márquez, giornalista con otto anni di esperienza, guadagna uno stipendio di 15 mila Bolivares Fuertes (BsF, pari a circa 15 dollari), lo stipendio minimo più basso al mondo.
Come precisa l’attivista Luis Carlos Díaz con il nuovo stipendio minimo il lavoratore “è pagato 500 BsF al giorno. Un chilo di patate costa 1.200 BsF. Quando si trova”.
Un paio di jeans in Venezuela costa 1 milione di BsF (900 dollari), un chilo di formaggio 5 mila BsF (5 dollari), una cipolla 500 BsF (50 centesimi). Non si sa quanto costano il latte, il pane e la carta igienica perché semplicemente non si trovano, a nessun prezzo.
E pensare che la Fao ha premiato nel 2015 il governo di Nicolás Maduro per i suoi programmi di “lotta contro la fame”, basandosi sugli indici diffusi dal governo. In alcuni luoghi la disperazione fa affittare deodoranti e dentifrici.
Uno scrittore venezuelano chiamato Arturo Uslar Pietri aveva detto nel 1936 che il Venezuela doveva “seminare il petrolio”; ovvero, investire le risorse che arrivavano al paese dall’esportazione del greggio in infrastrutture, sanità, istruzione, sviluppo industriale, per raccogliere i frutti quando il petrolio fosse finito o costasse meno.
Durante la campagna elettorale del 1999, Hugo Chávez disse che lo avrebbe fatto. Un piano a lungo periodo, alimentato dalle risorse energetiche non rinnovabili, simile a quello annunciato di recente dall’Arabia Saudita: Saudi Vision 2030.
Finito il tempo della bonanza petrolifera, oggi il Venezuela fa i conti con l’errore di avere creato un’economia mono-produttrice. Il bilancio per l’anno 2016 è stato calcolato con un barile a 100 dollari che oggi ne vale 35.
Dal 1999, quando è cominciato il governo di Chávez, il reddito petrolifero del Venezuela ha procurato alle casse dello stato cinque volte più risorse rispetto ai 40 anni precedenti: circa 430 miliardi di dollari.
Paradossalmente, il debito pubblico non è stato risanato ma aumentato: da 30 miliardi di dollari si è passati a 220 miliardi di dollari. Senza considerare i conti in sospeso con le aerolinee private, fornitori della petrolifera Pdvsa – la “cassaforte” di stato – e una lunga lista di importatori.
I 12 miliardi di dollari delle riserve straniere sono spariti. Nel Venezuela di oggi i bambini del romanzo di Sánchez Rugeles non avrebbero briciole da mangiare.
Un’altra congiuntura, nuova per il venezuelano, è la crisi energetica. A causa della siccità causata dal fenomeno de El Niño, la centrale idroelettrica di Guri nella regione Bolivar, che fornisce il 70 per cento dell’energia del paese, è paralizzata.
Così, per affrontare l’emergenza, il governo venezuelano ha deciso di ridurre la settimana lavorativa a due giorni. Ironicamente, il cortometraggio “La culpa, probablemente” del giovane regista venezuelano Michael Labarca, racconta cosa succede durante un black out ed è stato scelto in una delle sezioni del Festival di Cannes.
Ma Labarca forse non andrà a Cannes, sta ancora raccogliendo fondi su internet per potere pagare i 1000 euro del biglietto.
Infine, l’ultimo (e peggiore) dei mali del Venezuela: la violenza, temperatura permanente. La criminalità ha lasciato un bilancio di 27.875 omicidi nel 2015.
Secondo l’Osservatorio venezuelano della violenza, dal 1999, 252.073 persone sono morte a causa della cronica mancanza di sicurzza.
Il 93 per cento dei casi resta impunito. La “giustizia” però attacca chi ha una voce dissidente. Il leader dell’opposizione Leopoldo López è stato condannato a 13 anni, 9 mesi, 7 giorni e 12 ore di carcere per incitazione all’odio e alla violenza durante una manifestazione.
Il sindaco di Caracas, Antonio Ledezma, rischia 26 anni di carcere per tradimento della Patria e per avere attentato “contro la pace, la sicurezza del paese e la Costituzione”.
L’opposizione venezuelana, rappresentata nella coalizione della Mesa de la Unidad Democrática (Mud), ha raccolto in poche ore più delle 2,5 milioni di firme necessarie per convocare un referendum revocatorio contro il presidente Maduro.
Il Comitato elettorale nazionale ha approvato il processo, ma il Tribunale supremo di giustizia si è pronunciato contro. La totale mancanza di divisione di potere in un paese dove lo stato è il governo, e quest’ultimo è rappresentato dal presidente, complica le carte sul tavolo.
Sullo sfondo, la comunità internazionale resta silente. Qualcuno dica in Europa agli intellettuali che hanno celebrato fin dalla prima ora la Rivoluzione Bolivariana di Chávez, che la crisi economica e umanitaria in Venezuela è davvero insostenibile.
Nota: le quotazioni della valuta venezuelana non corrispondono a quelle ufficiali ma a quelle del mercato nero.
— L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Non solo Russia: il Mediterraneo nel summit Nato di Varsavia” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autrice
*Rossana Miranda, giornalista per Formiche.net e altre testate latino-americane. Ha pubblicato “Hugo Chávez. Il caudillo pop” (Marsilio, 2007) e “Dissidenza 2.0. Storie di blogger da Cuba alla Siria” (Eir, 2015)
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