Nei due decenni passati dalla guerra, la Bosnia Erzegovina non aveva mai vissuto un’ondata di manifestazioni di protesta come quella che la scuote da due settimane.
Lo Stato, ancora diviso sin dagli accordi di pace di Dayton (1995) in entità autonome in eterno contrasto tra loro – la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (in maggioranza bosniaci musulmani, o bosgnacchi, e croato-bosniaci) e la Republika Srpska (territorio dei serbo-bosniaci) – è da tempo in un serio stallo economico. La disoccupazione è la più alta dei Balcani, svetta enorme a quota 28 per cento. Tra i 15 e i 24 anni raggiunge il 60 per cento. Tuttavia il corpo sociale raramente aveva messo sul tavolo la questione del lavoro: merito (o meglio, colpa) delle élite locali, pronte a giocare la carta dei nazionalismi avversi su qualsiasi tipo di conflitto.
Tutto inizia a Tuzla, mercoledì 5 febbraio, con una manifestazione di lavoratori lasciati a casa dai proprietari di aziende privatizzate e poco tempo dopo dichiarate fallimentari. La manifestazione è grande e centinaia di cittadini indignati dalle difficoltà economiche si affiancano agli operai: il contrasto con le forze dell’ordine è duro. La protesta fa notizia e presto si diffonde in tutto il paese. Seguiranno sit-in solidali in diverse città. La rabbia esplode, rapida quanto imprevista, il 7 febbraio.
Diverse sedi cantonali (la Federazione è divisa in dieci cantoni, sedi amministrative con numerosi poteri, tra cui quelli contrattuali con le aziende sul territorio) vengono prese d’assalto e quattro di queste finiscono in fiamme: a Tuzla, Zenica, Mostar e Sarajevo. La polizia lascia spazio ai teppisti, intervenendo poco ed evitando il più possibile gli scontri – su preciso ordine del Ministro della Sicurezza Fahrudin Radončić. Ai vigili del fuoco non è permesso di spegnere l’incendio per oltre cinque ore, sebbene le principali strade del centro siano facilmente percorribili. Già dalla sera i vertici dello Stato minimizzano le proteste a meri “atti vandalici”, sostenuti in questo da un’informazione compiacente.
Ma la vecchia tattica non ha funzionato: i manifestanti hanno escluso nuove violenze, e sono tornati ogni giorno a fermare il traffico sul grande viale della capitale intitolato al Maresciallo Tito. I presidenti di diversi cantoni (tra cui Sarajevo) hanno dovuto rassegnare le proprie dimissioni, mentre a Tuzla sono previste nuove elezioni cantonali. La protesta, nata in maniera spontanea contro la corruzione e l’avidità dei maggiori partiti politici, cerca gradualmente di trovare una direzione comune.
In tutta la Federazione i cittadini si danno appuntamento in assemblee pubbliche: “plenum”, è la parola d’ordine. Colpevolmente tralasciati dall’informazione televisiva – sia pubblica che privata (critiche anche ad Al Jazeera, che a Sarajevo ha aperto una sede nel 2011) – i plenum riecheggiano in internet. L’assemblea di Tuzla è la prima a deliberare delle richieste politiche, tra cui la rivisitazione dei contratti di privatizzazione e l’esproprio delle aziende cittadine ai privati fallimentari (prima tra tutte la DITA, di proprietà serba, che produce detersivi e conta due anni di arretrati verso i dipendenti).
A Sarajevo il plenum, previsto per mercoledì 12, è stato effettuato due giorni dopo, per via della grande partecipazione. Nella “casa della gioventù” cittadina, circa mille persone hanno affermato i tre principi che guideranno il movimento: equità ed uguaglianza davanti alla legge; solidarietà; nonviolenza. Le prime proposte sono per l’abolizione del sussidio ai parlamentari dopo la scadenza del mandato e l’annullamento di tutti i procedimenti a carico dei manifestanti per le proteste del 7 febbraio.
Nel frattempo la città ed il Paese si trovano di fronte al difficile compito di strutturare la protesta senza farne perdere la forza, mentre il tempo passa e la partecipazione rischia di venire meno. Diversi professori universitari partecipano alla “università aperta” (otvoreni univerzitet), con lezioni pubbliche ogni sera sui temi della democrazia. Si spera che il fattore civico e sociale possa avere la meglio sulla liturgia nazionalista che ha bloccato il Paese dalla sua nascita, come ha sottolineato Slavoj Žižek in un articolo sul Guardian, richiamando alle manifestazioni di sostegno (ancora poche, per la verità) in Republika Srpska.
Un movimento che metta in gioco (magari alle elezioni nazionali del prossimo autunno) non solo la struttura statale basata sull’eterna mobilitazione etnica del “noi” contro “loro”, ma anche l’equilibrio tra sviluppo dell’economia di mercato ed ingerenze del capitale straniero che ha sostenuto e usato il sistema Dayton, trovando mano d’opera a buon prezzo e istituzioni facili da manipolare. La lotta a piccoli passi della Bosnia indignata non può essere considerata marginale nella politica europea. Le proteste possono facilmente estendersi al Montenegro, che sull’onda degli avvenimenti bosniaci ha già segnato una violenta manifestazione antigovernativa sabato 15 febbraio, o in Croazia, dove l’entusiasmo per l’ingresso nella UE non riesce più ad oscurare la crisi economica.
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