Era la sera del 15 agosto e Rashid Sidda era a cena in casa della sua famiglia nel villaggio palestinese di Jit, a una decina di chilometri da Nablus, nella Cisgiordania occupata da Israele e da centinaia delle sue colonie illegali.
Erano da poco passate le 20:00 quando un centinaio di persone a volto coperto ha cominciato a bruciare case e auto e a minacciare i residenti. Come molti altri, anche il tecnico informatico è uscito di casa per protestare e fermare gli aggressori ma è stato il solo a restare ucciso da uno dei proiettili sparati dai coloni israeliani armati, che hanno ferito anche altre cinque persone, compreso un adolescente. Aveva soltanto 23 anni.
Per stessa ammissione del generale Avi Bluth, capo del comando centrale delle forze armate di Israele (Idf), l’esercito dello Stato ebraico non è riuscito a fermare i coloni violenti malgrado fosse stato avvisato dell’irruzione dai servizi interni dello Shin Bet. Pur giunte sul posto «in sei minuti», le truppe non hanno arrestato nessuno, fermando quattro persone soltanto il giorno dopo.
Per i palestinesi della Cisgiordania occupata è un copione già visto ma stavolta le Idf hanno bollato l’aggressione come un «atto terroristico» mentre diversi esponenti del governo Netanyahu hanno condannato il «pogrom». Persino i più oltranzisti come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha definito gli aggressori dei «criminali», assicurando però che «non hanno alcun legame con i coloni».
Il ministro conosce bene la zona visto che risiede nell’insediamento di Kedumim, a meno di dieci minuti in macchina da Jit. Ma evidentemente non abbastanza i suoi vicini, considerando che i denunciati vivono proprio negli avamposti israeliani circostanti. Tra le unità accorse sul posto, secondo fonti citate dal quotidiano locale Haaretz, c’erano anche alcuni membri della squadra di pronto intervento di Havat Gilad, un insediamento illegale riconosciuto nel 2018 dal governo di Tel Aviv ed entrato nella “mitologia” dei coloni.
Violenza e impunità di Stato
L’avamposto fu fondato nell’aprile 2002 a un chilometro a est di Kedumim e fa parte di un anello di insediamenti che circonda la città di Nablus. Fino al 2011 fu osteggiato dalle autorità israeliane, che sette anni dopo però optarono per il suo riconoscimento a seguito dell’omicidio del rabbino locale Raziel Shevach in un attentato.
La storia della sua costituzione è esemplare: Havat Gilad fu fondata da Moshe Zar, che in seguito si definirà il precursore della Hilltop Youth, un’associazione giovanile suprematista sanzionata da Stati Uniti e Unione europea. In un video pubblicato quindici anni fa, Zar spiegò di aver fondato l’insediamento su un terreno acquistato nel 1979 da un residente arabo, dedicandolo poi alla memoria del figlio Gilad, ucciso nel 2001: «Dal momento in cui sono venuto ad arare questa terra fino a oggi, nessuno ha contestato la proprietà, né lui (il precedente proprietario, ndr), né i suoi figli, né i suoi fratelli né nessun altro». Eppure, per sua stessa ammissione, allora non fu firmato alcun contratto di vendita. Zar e il presunto venditore si sarebbero avvalsi dell’articolo 78 del Codice fondiario ottomano, riconosciuto dalla Corte Suprema israeliana, secondo cui una terra coltivata senza opposizione né contestazioni per 10 anni può essere legalmente registrata al Catasto come propria da chi la coltiva. Una versione contestata dai residenti palestinesi.
Ma l’insediamento è cresciuto molto da allora. In un rapporto pubblicato nel 2021, l’ong israeliana B’Tselem denuncia come «le terre di Havat Gilad sono state oggetto di appropriazione indebita anche attraverso la violenza perpetrata dai coloni contro i pastori e gli agricoltori palestinesi», a forza di «taglio degli ulivi, furto dei raccolti, incendi di campi e auto e spari in aria». Secondo l’ong israeliana Kerem Navot, così i coloni hanno occupato oltre 2,5 chilometri quadrati di terreni, di cui solo pochi ettari coltivati, in centinaia di appezzamenti precedentemente in possesso dei residenti dei vicini villaggi palestinesi di Immatin, Far’ata e Sarra. Per B’Tselem non è un caso isolato ma si tratta di un «metodo applicato in tutta la Cisgiordania», dove la situazione è peggiorata dall’inizio della guerra a Gaza.
Dai brutali attentati di Hamas del 7 ottobre, in Cisgiordania sono spuntati 20 nuovi avamposti mentre 18 villaggi palestinesi sono stati evacuati. Secondo l’ong locale Yesh Din, soltanto il tre per cento degli oltre 1.664 casi di violenza compiuti tra il 2005 e il 2023 da civili israeliani contro i palestinesi nei Territori occupati si sono conclusi con una condanna. Come dire che l’impunità per i violenti è praticamente assicurata, così come l’appoggio dello Stato.
Pascoli verdi
Persino le frange più violente degli insediamenti israeliani in Cisgiordania possono contare su importanti protezioni politiche, come dimostrato lo scorso 28 gennaio quando alla “Conferenza per la vittoria di Israele” a Gerusalemme parteciparono ben 11 ministri e 15 deputati della maggioranza. Ma ricevono anche aiuti concreti.
Negli ultimi sei anni, secondo i dati del ministero israeliano dell’Agricoltura citati dall’associazione locale Peace Now, gli avamposti illegali hanno ottenuto l’equivalente di oltre 411mila euro in sussidi pubblici, mentre è già stato approvato un altro stanziamento da quasi 372mila, non ancora erogato. Risorse stanziate per «preservare le aree aperte tramite il pascolo» ma finite ai coloni violenti sanzionati da Usa e Ue.
Dal 2020 il solo Neria Ben Pazi, accusato da Bruxelles di aver «ripetutamente attaccato i palestinesi a Wadi Seeq e Deir Jarir», ha intascato l’equivalente di oltre 12mila euro. Altri 13mila sono destinati a Zvi Bar Yosef, sospettato dall’Ue di aver gravemente ferito alcune persone nei villaggi palestinesi di Jibya, Kaubar e Umm Safa. Oltre 1.475 devono quindi andare a Moshe Sharvit, impegnato secondo l’Unione «in violenze e minacce verso le comunità di pastori palestinesi della valle del Giordano».
Ma i coloni godono anche di finanziamenti indiretti attraversi le loro associazioni. Alcuni documenti ottenuti dall’israeliano Movement for Freedom of Information mostrano come solo nel 2018 il Consiglio regionale di Gush Etzion, che amministra un insieme di insediamenti illegali a sud di Gerusalemme e Betlemme, abbia stanziato l’equivalente di oltre 744mila euro a favore dell’Amana, un’organizzazione non governativa che promuove la fondazione di avamposti nei Territori occupati. Il governo di Tel Aviv fornisce generose sovvenzioni ai consigli regionali e ai comuni degli insediamenti ma gli aiuti pubblici arrivano anche sotto forma di incentivi.
I residenti delle colonie e le aziende che investono nei Territori occupati, secondo il centro studi israeliano Who Profits, godono di importanti agevolazioni. Nella maggior parte delle colonie gli acquirenti sono esenti dal pagamento delle tasse sulle plusvalenze immobiliari e godono di altri sgravi fiscali, anche sul reddito, applicati nelle zone di conflitto. Alcune località sono state poi designate come “aree prioritarie nazionali”, ricevendo una serie di benefici economici. Quasi tutti gli insediamenti invece sono stati inclusi in un programma governativo che offre appartamenti a prezzi calmierati a determinate categorie.
Le società edili e i privati che decidono di costruire in questi territori sono anche esenti dall’Iva. Inoltre, per i primi due anni, gli appaltatori e i titolari di attività economiche in alcuni insediamenti non devono nemmeno pagare l’imposta sul reddito delle società e godono anche di detrazioni fiscali per i lavori svolti all’interno dei confini di Israele. Viene da chiedersi se la violenza paga.
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