Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Esteri
  • Home » Esteri

    Cosa pensa la sinistra ungherese del referendum del 2 ottobre sui migranti

    Davide Lerner ha intervistato per TPI due europarlamentari ungheresi, il verde Benedek Javor e il socialista Peter Niedermuller, sul referendum

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 29 Set. 2016 alle 17:00 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 18:15

    “In Ungheria non ci sono più migranti, erano tutti in transito. L’unico scopo di questo referendum è rafforzare il governo in carica”, dicono due europarlamentari ungheresi a Tpi.

    “Volete o no che l’Ue possa obbligarci ad accogliere in Ungheria, senza l’autorizzazione del parlamento ungherese, il ricollocamento forzato di cittadini non ungheresi?”. 

    Con un quesito che suona quasi come una domanda retorica, questa domenica l’Ungheria si pronuncerà sulle quote obbligatorie per il ricollocamento dei migranti volute dalla Commissione europea (ma già cadute nel dimenticatoio) e sul destino dei rifugiati giunti nel paese attraverso la rotta balcanica (i quali, però, hanno nel frattempo abbandonato l’Ungheria per dirigersi altrove).

    Insomma, una consultazione faziosa riguardo una soluzione superata a un problema già archiviato altrimenti (coi muri, costruiti al confine con Serbia e Croazia), che la sinistra ungherese spera di boicottare con l’astensione. 

    Siamo andati al Parlamento Europeo di Bruxelles per chiedere a due deputati ungheresi progressisti – il verde Benedek Javor e il socialista Peter Niedermuller, che fa parte della commissione che segue la crisi migratoria – che cosa pensino del referendum di questa domenica.

    Entrambi si augurano che non venga raggiunto il quorum di 4 milioni di elettori, dal momento che i sondaggi danno il NO in vantaggio al 75 per cento fra i cittadini decisi a votare.

    “Questo referendum affonda le proprie radici nel gennaio 2015, poco dopo gli attentati di Charlie Hebdo, quando Viktor Orbán è tornato dalla grande manifestazione di Parigi deciso ad insistere sull’equazione fra immigrazione e terrorismo”, spiega Peter Niedermuller.

    “Il fatto che la maggior parte degli attentatori fossero di seconda e terza generazione avrebbe dovuto farci riflettere sul fallimento dell’integrazione, ma da allora il governo ha cavalcato un’ondata xenofoba per trarne un vantaggio politico”, chiosa il suo collega. 

    Non bisogna tuttavia dimenticare che nell’estate dell’anno scorso diverse centinaia di migliaia di profughi hanno varcato i confini dell’Ungheria, inoltrando 180.000 richieste di asilo politico nell’arco del 2015. Si parla di numeri che facilmente spaventano un paese di 10 milioni di persone. 

    “In effetti nell’estate 2015 sono arrivati più di 300.000 migranti, cogliendo di sorpresa un po’ tutti e in primis il governo. La stragrande maggioranza però non aveva intenzione di rimanere in Ungheria, Orban ha avuto quindi gioco facile a spingerli verso Austria e Germania”, dice Niedermuller.

    Sono le settimane della grande apertura della Merkel, del piazzale davanti alla stazione di Budapest trasformato in un accampamento di 10.000 rifugiati, dei treni e degli autobus stipati che partivano verso Ovest.

    “Queste partenze di massa hanno fatto sì che ora del 15 settembre – il giorno in cui l’Ungheria ha sigillato le frontiere – nel paese rimanessero soltanto poche centinaia di migranti. Grazie alle recinzioni costruite nei mesi precedenti la situazione non è cambiata, il che rende ancora più insulso questo referendum”, continua il deputato. 

    Quello stesso mese di settembre il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker avrebbe proposto il piano di ridistribuzione dei migranti, secondo quote stabilite sulla base della capacità di ricezione degli stati membri.

    I 160.000 immigrati da assegnare ai vari paesi Ue sarebbero stati prelevati dagli stati più esposti, cioè Italia, Grecia, ma anche l’Ungheria, edulcorando l’effetto impari del regolamento di Dublino. 

    A quel punto, però, Budapest non ne voleva già più sapere di piani europei, anche se la proposta Juncker prevedeva il ricollocamento di 54.000 immigrati dal paese magiaro.  

    Probabilmente perché dopo “l’estate calda” il governo voleva avere il pieno controllo della situazione, a costo di fare da solo. “Io credo invece che Orban avesse già deciso fare della crisi un volano politico, e che quindi la collaborazione europea fosse d’impiccio per la sua retorica dell’Ungheria abbandonata da Bruxelles”, dice Benedek Javor. 

    Quale che sia la ragione, Budapest si è fin da subito sottratta al piano di redistribuzione accodandosi alla Slovacchia che addirittura lo denunciava presso la Corte Europea. 

    “Eppure dei 1294 migranti assegnati all’Ungheria secondo il sistema di quote ne avremmo alla fine accolti all’incirca 150, visto che il nostro tasso di approvazione delle richieste d’asilo si aggira attorno al 15 per cento. Tale è il numero di rifugiati che secondo il governo giustifica questo referendum”, ride l’eurodeputato verde. 

    Spiega che la “crisi” è dunque del tutto artefatta, ricordando come durante le guerre balcaniche degli anni ’90 in Ungheria arrivarono 300.000 profughi bosniaci e croati, lo stesso numero dell’estate 2015.

    Ma perché allora questo incaponirsi sulla questione dei profughi, in Ungheria come anche negli altri paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria).

    Per Peter Niedermuller “è vero che nei paesi di Visegrad il baricentro politico è spostato verso destra rispetto ai paesi dell’Europa occidentale, e che posizioni dure sui migranti fanno breccia anche nelle sinistre”.

    Javor cerca invece di spiegarne il motivo: “non avendo partecipato alla colonizzazione l’est Europa ha avuto storicamente meno contatto con “l’altro”, il che ci rende timorosi verso lo straniero”, spiega facendo tornare in mente il significato letterale di “xenofobia” che è “paura del diverso”.

    “Durante la guerra fredda l’Europa occidentale faceva esperienza di migrazioni che non toccavano il lato opposto della cortina di ferro. Penso ai maghrebini in Francia, ai turchi in Germania, agli indiani e pakistani in Inghilterra, a libici e migranti dell’Africa sub-sahariana in Italia”, continua.

    Il primo ministro Victor Orban, cui Jean-Claude Juncker ha riservato un sarcastico “Hello dictator” in occasione di un incontro nel maggio 2015, è sicuramente un “europeo inquieto” ma non può essere tacciato di anti-europeismo.

    Basti pensare alla sua proposta del mese scorso di rilanciare il progetto di un esercito europeo, ipotesi che continua a circolare invano fin dalla bocciatura francese della “European Defence Community” nel 1954.

    Dice Peter Niedermuller: “Orban non è contro l’Unione europea, ma vuole un’Europa diversa da quella attuale. Vuole identità nazionali forti, un ritorno alle radici cristiane, più omogeneità etnica all’interno degli stati”.

    Più concreto invece Javor: “negli ultimi anni l’economia ungherese è cresciuta del 2-3 per cento, laddove senza i fondi europei ci sarebbe stata una decrescita dei medesimi punti percentuali. Orban non può permettersi di fare l’anti-europeista, ma sicuramente la sua concezione di Ue è più simile a quella inglese, più mercato che unione politica, soprattutto niente unione di valori”.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version