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    Cosa nostra parla spagnolo

    Traffico di droga. Riciclaggio di denaro. Camorra e 'ndrangheta. Siamo a Scampia? No, a Madrid

    Di Roberto Pellegrino
    Pubblicato il 13 Mar. 2014 alle 01:25 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:13

    La Spagna è “il cortile privato” dei mafiosi italiani, un terreno fertile, su cui, da trent’anni, camorra e ‘ndrangheta hanno ricostruito i loro affari, ampliato i loro interessi e decuplicato il giro di denaro con il riciclaggio e il controllo del mercato della droga proveniente da Sudamerica e Nord Africa. Joan Queralt, giornalista e scrittore spagnolo, è uno dei massimi esperti dell’infiltrazione mafiosa nella penisola iberica. Ha collaborato con diverse testate spagnole, europee e latinoamericane, come Revista de Occidente, El País, El Periodico de Catalunya, Diario 16, La Repubblic eOpinión. Da anni si dedica al fenomeno, analizzandone storia ed evoluzione. Ha pubblicato libri d’inchiesta tra cui “Crónicas mafiosas”, (Cahoba, 2006) e “La Gomorra di Barcellona” (2011, Editori Riuniti).

    Joan Queralt, qual è la percezione degli spagnoli riguardo la presenza della mafia italiana nel loro Paese?

    È ancora superficiale, perché la società spagnola sa ben poco della sua presenza. In Catalogna, come in tutta la Spagna, manca la conoscenza delle organizzazioni mafiose, poiché il problema della criminalità organizzata non è considerato una priorità. Gli spagnoli apprendono di mafia da giornali e tv soltanto in occasione di arresti e confische. E soltanto in base a quanto è scritto nei comunicati della polizia. Così è impossibile comprendere gli effetti che le mafie “moderne” hanno sulla società spagnola.

    Persistono ancora alcuni stereotipi?

    La mafia è ancorata ad alcuni stereotipi alimentati dalla tv e dal cinema: la mafia, così concepita, è violenza, un mondo sotterraneo di delinquenti e assassini che vivono ai margini della società legale, mentre nella realtà è il contrario. La Spagna è incapace di riconoscere immediatamente i valori e i comportamenti moderni della subcultura mafiosa che sono radicati nella quotidianità e incidono su di noi.

    Quanto si è espansa la mafia italiana in Spagna e dove si è maggiormente introdotta?

    Qui il core business di camorra e ‘ndrangheta è il traffico di droga. Ed è il motivo per cui gli affiliati delle varie cosche hanno messo su casa in Spagna, che è la porta principale in Europa per la droga proveniente da Africa e America Latina. Inoltre la Spagna è diventata il centro nevralgico del riciclaggio del denaro attraverso gli investimenti in attività commerciali e immobiliari. Nel corso degli anni truffe e corruzione sono aumentate: ci sono più rapine, più falsificazioni di prodotti per mano di gruppi mafiosi o di bande vincolate alle cosche.

    Per quale motivo la mafia ha attecchito in Spagna?

    Catalogna, Andalusia e la stessa città di Madrid sono luoghi geograficamente più favorevoli al malaffare delle mafie: la vicinanza con l’Italia, i molti chilometri di coste marittime, il clima, la somiglianza della lingua e la presenza del turismo che porta denaro. La vicinanza a Gibilterra e alle coste del Nord Africa e, soprattutto, a un paradiso fiscale come Andorra, sono fondamentali per il giro d’affari delle cosche che, tuttavia, da qui possono facilmente controllare anche le loro attività in Italia. Inoltre a favore delle mafie gioca l’impreparazione delle autorità nel combatterle.

    Per quale motivo la polizia spagnola è impreparata?

    C’è una cultura giudiziaria poco adeguata, così come un blando regime penitenziario e raramente si riesce a usare quella che è l’arma più efficace: la confisca dei beni. Ma è bene dire che camorra e ‘ndrangheta non si sono istallate in modo organico in Spagna: alcuni clan sono presenti in modo stabile, altri in modo discontinuo. E pur gestendo qui attività illegali, il controllo rimane in Italia.

    Le autorità italiane si lamentano della poca attenzione al fenomeno della polizia spagnola.

    Personalmente mi sorprende lo scarso scambio d’informazioni tra i due Paesi. Questa collaborazione è soffocata dall’eccessiva burocrazia e dal solo utilizzo di canali istituzionali come Europol, per la polizia, ed Eurojust, per i magistrati. E questo dipende dalla volontà politica che non dà la priorità adeguata al fenomeno, negando le risorse.

    Come nasce il suo interesse per il fenomeno mafioso?

    Ero interessato alle zone segrete della politica e alle sue manifestazioni interne di criminalità. Negli anni Ottanta investigando sulla P2 arrivai a Cosa Nostra che all’epoca, con la sua complicità con una certa classe dirigente, rappresentava la sintesi perfetta della mia visione di certa politica. Nel 1989, per la prima volta, visitai la Sicilia, studiando il lavoro di Falcone, Borsellino e Caponnetto: magistrati che volevano liberare la Sicilia dalla criminalità, richiamando una grande attenzione all’estero. Io sono cresciuto con il Franchismo e consideravo la giustizia come un’istituzione fondamentalmente oppressiva, ma quando vidi il lavoro dei magistrati siciliani, mi parve, invece, che la giustizia era anche capace di cambiare le cose con un rinnovamento sociale e morale. Con la morte di Falcone e Borsellino ho capito che dovevo combattere anch’io e a modo mio, perché la più grande sfida della nostra società è nella lotta tra legalità e illegalità, un terreno dove si decide gran parte del nostro futuro.

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