Coronavirus, in Usa disabili esclusi dalle cure
Mentre la pandemia di Coronavirus continua a espandersi negli Stati Uniti, dove fino ad ora secondo la Johns Hopkins University le vittime sono state oltre 1.000 e i contagiati 68.572, gli ospedali si preparano a ricevere pazienti con difficoltà respiratorie in quantità che non sono in grado di sostenere, e per questo gli stati hanno fornito ai propri medici linee guida per gestire l’emergenza: a volte però queste comportano gravi discriminazioni nei confronti di disabili o di candidati che hanno meno possibilità di sopravvivere.
Lo rivelano i documenti dei circa 35 stati che hanno reso noti i loro criteri, secondo cui i medici dovranno valutare il livello di abilità fisica e intellettiva generale per decidere se salvare o meno una vita. E sembra che la tendenza sia quella di escludere chi soffre di disturbi intellettivi o fisici, come i disabili, o chi ha “meno valore per la società”. Uno dei casi più eclatanti è quello dell’Alabama, dove secondo quanto emerso da un documento intitolato Scarce Resource Management, citato dal quotidiano Avvenire, i “disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione”.
Ma l’Alabama non è il solo: nelle linee guida dello stato di Washington, dove sono emersi i primi casi di Coronavirus, emergono frasi come “capacità cognitiva”, mentre in quelle del Maryland o della Pennsylvania, caratteristiche come “disturbo neurologico grave” sono quelle che comporterebbero l’esclusione dalla terapia intensiva in caso di mancanza di posti. Le associazioni che si occupano della difesa dei diritti dei disabili si sono subito allarmate: Disability Rights Washington, Self-Advocates in Leadership, The Arc of the United States hanno già fatto causa allo Stato di Washington per impedire l’entrata in vigore dei criteri per l’accesso alle cure salvavita. Altre organizzazioni si sono appellate al governo federale perché imponga alle amministrazioni locali e agli ospedali il principio che i disabili non possono essere discriminati, e che alcune vite non valgono più di altre.
“Le persone affette da disabilità sono terrorizzate che se le risorse si fanno scarse, verranno inviati in fondo alla fila. E hanno ragione, perché molti Stati lo affermano in modo abbastanza esplicito nei loro criteri”, dice Ari Ne’eman, docente al Lurie Institute for Disability Policy dell’Università Brandeis e attivista, che il 23 marzo scorso ha pubblicato sul New York Times un commento dal titolo “I Will Not Apologize for My Needs” (non mi scuserò per i miei bisogni) in cui denuncia la situazione in cui potrebbero trovarsi i disabili e afferma che anche durante un’emergenza i dottori non devono sospendere il principio di non discriminazione.
E mentre i singoli Stati si regolano sui criteri di accesso, suscitando la preoccupazione della comunità di disabili, sembra che si stia diffondendo una “golden rule” in tutto il Paese, presente in tutti i documenti di gestione delle risorse: quella di chiedere a un paziente se, in caso di scarsità di strumenti salvavita, vuole avervi accesso o lasciare la precedenza a chi potrebbe avere più possibilità di sopravvivere. O addirittura “maggiore valore per la società”. Una regola che imporrà sul paziente “una pressione inaudita”, commenta Ne’eman.
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