La città-focolaio dell’India che ha azzerato i contagi grazie a misure severissime
“Bhilwara sarà la Codogno indiana?”. Era più o meno questa la domanda che si faceva l’autore di un articolo comparso sul sito della BBC il 24 marzo. Nel cuore dello stato del Rajasthan, la città di Bhilwara, 370.000 abitanti e capoluogo dell’omonimo distretto da due milioni e mezzo di anime, sembrava infatti destinata a ripercorrere il tragico sviluppo del focolaio lombardo, dal momento che anche lì, dopo la dimissione sbrigativa di un 58enne con polmonite sospetta ma non testata, ben dodici dipendenti dell’ospedale cittadino erano stati trovati positivi al Covid-19.
Con centinaia di accessi quotidiani, scrive sempre la BBC, l’ospedale di Bhilwara sarebbe potuto diventare il primo vero focolaio dell’intero Paese. Eppure ciò non è successo. Anzi, la gestione dell’emergenza a Bhilwara è diventata in poche settimane il modello di riferimento non solo per l’India, ma anche per il resto del mondo. E gran parte del merito viene universalmente conosciuta a Rajendra Bhatt.
Il sig. Bhatt è il magistrato distrettuale di Bhilwara. La sua carica è un’eredità del periodo coloniale britannico, una specie di presidente di Provincia con un grandissimo potere sulla giustizia, sui tributi e sul mantenimento dell’ordine pubblico, e fa di lui l’uomo più potente del distretto tessile da più di due milioni di abitanti. Sotto la sua guida, i casi nel distretto sono arrivati a un picco di 27, raggiunto il 31 di marzo, e poi si sono fermati, rendendo quello di Bhilwara il primo distretto ad aver fermato il contagio in tutto il Paese. Un piano serrato in più punti, messo in atto grazie a uno straordinario coordinamento tra tutti gli attori del tessuto sociale del distretto.
La regione del Rajasthan ha proibito gli assembramenti di tre o più persone già il 19 marzo, quando si è diffusa la notizia che una coppia di ritorno dall’Italia è stata trovata positiva al Covid nell’ospedale di Jaipur, la capitale dello Stato. Già due giorni dopo, Rajendra Bhatt ha imposto la chiusura di tutte le aziende e gli stabilimenti con più di dieci persone. Una breve ma efficace trattativa con gli imprenditori ha permesso di trattare una specie di cassa-integrazione ad erogazione immediata. Lo stesso giorno è stata proibita la circolazione di tutti i mezzi di trasporto, dagli autobus ai tuktuk, e ad ogni struttura alberghiera del distretto è stato richiesto di mettere dalle 5 alle 20 camere a disposizione del sistema sanitario e del personale amministrativo.
Il giorno dopo, il 22 marzo, sono state erette barricate e istituiti posti di blocco fissi, 24 ore su 24, per limitare gli spostamenti, e messe a disposizione le più di 6000 stanze ‘requisite’ per la quarantena, con una perfetta organizzazione di distribuzione pasti per poter garantire l’isolamento totale. La stessa che è stata allestita per disoccupati, poveri e senza tetto con l’aiuto di tanti imprenditori, filantropi e associazioni. Dal punto di vista medico, invece, quel giorno erano già stati tracciati tutti i possibili contatti dei primi infetti, a cui si sono aggiunte le 63 famiglie dei ricoverati in terapia intensiva anche con test negativo, e predisposta una quarantena di massa per i soggetti interessati. 150 tra medici e personale sanitario hanno rimpolpato le file al Mahatma Gandhi Hospital, dove il numero di tamponi a disposizione è continuato a salire.
Al 26 marzo, 6000 abitanti della distretto erano stati disposti in quarantena o in ricovero ospedaliero, e in soli tre giorni lo screening porta a porta ha raggiunto l’impressionante numero di 2,2 milioni di persone tracciate da parte di 2000 team sparsi in tutta l’area. In pratica, sono stati raccolti sintomi e stato di salute del 92% della popolazione distrettuale. Lo stesso giorno in ogni villaggio è stato istituita una ‘brigata di lotta al Coronavirus’ (chiamata Corona Fight), composta da attivisti, lavoratori degli orfanotrofi e ufficiali locali. Un po’ ronde per garantire che tutti restassero in casa, un po’ agenti per scovare e limitare ogni forma di mercato nero di mascherine e materiale sanitario, in modo da preservare le scorte a disposizione della cittadinanza.
Il risultato è che dal 31 di marzo, quando è stato raggiunto il picco di 27 casi in tutto il distretto, il contagio si è fermato improvvisamente, e proprio oggi è arrivata la notizia che, dopo soli 2 decessi, gli altri 25 sono guariti e sono stati dimessi, e un solo nuovo caso è stato riportato negli ultimi dieci giorni.
Il magistrato distrettuale Rajendra Bhatt è diventato una sorta di eroe locale, e un piccolo distretto di una delle regioni più povere dell’India ha dimostrato come, con pochi mezzi ma tanta fermezza, si possa arginare la diffusione del virus anche senza applicazioni avveniristiche o tamponi a tappeto.
A tutto lo stato del Rajasthan, di cui la città e il distretto fanno parte, va comunque riconosciuto un lavoro particolarmente efficace e mirato: nella popolosa capitale Jaipur, ad esempio, ogni volta che si individua un nuovo contagiato viene dichiarata una zona rossa nel raggio di due km dall’abitazione dell’infetto, zona da cui nessuno può uscire e in cui nessuno può entrare. “Il modello Bhilwara è diventato un punto di riferimento su come l’isolamento rigido e lo screening porta a porta possono aiutare ad arginare la pandemia mortale” scrive oggi il Business Insider, a cui fanno eco il Times of India e tutta la principale stampa del paese. E quindi no, Bhilwara non è diventata la Codogno indiana. Speriamo invece che tutte le nostre città possano diventare le Bhilwara italiane.
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