Donne, violenze, diritti: in Europa – e non solo – tira una brutta aria. La notizia che la Turchia ha ufficialmente lasciato la Convenzione di Istanbul è rimbalzata su tutti i media internazionali negli ultimi giorni, con reazioni del mondo politico e sociale levatisi da ogni angolo del globo. Dall’Europa, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Josep Borrell, ha espresso grande disappunto per il ritiro turco dal trattato e ha dichiarato: “Non possiamo che rammaricarci profondamente e mostrare incomprensione nei confronti della decisione del governo turco di ritirarsi da questa Convenzione che porta persino il nome di Istanbul. Tale decisione rischia di compromettere la protezione e i diritti fondamentali delle donne e delle ragazze in Turchia. Inoltre, invia un messaggio pericoloso in tutto il mondo”.
Eppure la decisione non dovrebbe sorprendere, dato che le intenzioni erano chiare da oltre un anno. Il dissenso contro la Convenzione di Istanbul ha trovato anche nel cuore dell’Europa suoi accaniti seguaci. Basti pensare al ministro polacco della Giustizia, Zbigniew Ziobro, che nel 2020 definiva la Convenzione un “mero manifesto ideologico da cui è necessario dissociarsi”, ragione sufficientemente valida per chiedere il ritiro della Polonia dalla Convenzione.
Una definizione che mortifica un testo fondamentale per per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica. La Convenzione di Istanbul è un accordo internazionale che fu promosso dal Consiglio d’Europa nel 2011 ed entrò in vigore nel 2014 per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili. L’accordo è noto come Convenzione di Istanbul perché fu ratificato nella città turca e perché la Turchia fu il primo paese a firmarlo, quando già Erdogan era presidente.
E purtroppo esistono dei precedenti: a maggio scorso l’Ungheria guidata dall’autoritario Viktor Orbán ha deciso, tramite il voto del parlamento, di non ratificare il testo. La motivazione è che esso favorirebbe l’immigrazione clandestina, nella parte in cui chiede l’accoglienza delle persone vittime di persecuzioni in base all’orientamento sessuale. Inoltre, anche in questo caso si trova il solito riferimento alla presunta “ideologia gender”, con principi definiti inaccettabili e incoerenti con la costituzione ungherese.
Anche la vicina Slovacchia ha preso posizione contro la convenzione. A febbraio 2020, 96 parlamentari su 113 hanno votato contro la sua ratifica, su proposta del partito di maggioranza di estrema destra Slovak national party. Il documento del Consiglio d’Europa è stato giudicato incoerente con i principi costituzionali polacchi, in primis quello che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna. Dalla Slovacchia, come già dall’Ungheria, hanno poi sottolineato di voler fare pressione sul resto dei firmatari affinché il ritiro dalla convenzione potesse allargarsi ad altri paesi.
E in effetti sembra ci stiano riuscendo: a distanza di 10 anni da quello che sembrava un passo epocale, la Turchia abbandona un accordo fondamentale adducendo motivazioni che fanno piombare la lotta per i diritti delle donne in un enorme buco spazio-temporale. Il governo turco non ha spiegato le motivazioni dietro la decisione presa. Molto probabilmente si tratta di una mossa fatta per strizzare l’occhio alla parte più conservatrice e islamista del suo elettorato. Favorendo la parità di genere e vietando la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, infatti, secondo questa fetta di elettorato il trattato sarebbe un pericolo per i valori tradizionali e favorirebbe la comunità Lbgtqir.
Negli ultimi anni lo stile di governo di Erdogan è diventato sempre più autoritario: il presidente ha cominciato a dare ascolto ai gruppi islamici più conservatori, di cui fanno parte anche molti esponenti di rilievo dell’AKP, il suo partito, secondo cui la Convenzione di Istanbul sarebbe contraria alle norme dell’Islam e incoraggerebbe divorzio e omosessualità. Il vicepresidente turco, Fiat Oktay, commentando la decisione del ritiro dalla Convenzione ha scritto su Twitter che la soluzione per “elevare la dignità delle donne turche” sta “nelle nostre tradizioni e nei nostri costumi”, non nell’imitazione di esempi esterni.
In generale, quanto stabilito nella Convenzione viene percepito dal governo di Ankara come una minaccia per le famiglie turche. Il presidente ha più volte sottolineato la “santità” del nucleo familiare e ha invitato le donne ad avere almeno tre figli. Il suo direttore delle comunicazioni, Fahrettin Altun, ha ricordato che il motto del governo è il seguente: “Famiglie potenti, società potente”. Il ministro della Giustizia, Abdulhamit Gul, ribadendo il concetto ha dichiarato: “Continuiamo a proteggere con determinazione l’onore del nostro popolo, la famiglia e il nostro tessuto sociale”. Quest’ultimo, al contempo, ha assicurato che il governo è comunque impegnato a combattere la violenza contro le donne.
In Turchia si parlava ormai da più di un anno del ritiro del paese dalla Convenzione, e negli scorsi mesi ci sono state grandi manifestazioni in tutto il paese, contro la violenza sulle donne e contro l’ipotesi di ritiro. Ora che la decisione è stata ufficializzata la Turchia è in rivolta. Le maggiori manifestazioni di protesta sono avvenute a Istanbul, Ankara e Smirne, sulla costa occidentale del Paese, e sono state partecipate soprattutto da donne, con le bandiere viola della piattaforma turca “Noi fermeremo il femminicidio”.
Il passo turco segna un punto di non ritorno: l’identità religiosa e la difesa del genere e dei valori tradizionali tornano a essere uno strumento di controllo e di potere nelle mani dei sovrani: nascondendosi dietro lo spauracchio della religione, i governanti combattono la loro battaglia di principio contro il concetto di genere, accusato di voler sostituire la definizione biologica di sesso ed eliminare la differenza “naturale” tra maschi e femmine. Così, mentre ancora si susseguono gli allarmi dell’Onu e dell’Oms sull’aumento dei femminicidi nel mondo a causa del lockdown, la Turchia decide di rispondere nel modo più paradossale.
Secondo un’associazione che monitora i casi di violenza contro le donne, citata dal Financial Times, nell’ultimo anno in Turchia ci sono stati almeno 300 femminicidi, e 171 donne sono state uccise in circostanze sospette. Inoltre, soltanto nei primi 65 giorni del 2021 in Turchia ci sono stati 65 femminicidi. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità almeno il 40 per cento delle donne turche è vittima di violenza compiuta dal proprio partner, rispetto a una media europea del 25 per cento.
La Polonia sul piede di guerra
“Una fantasia e un’invenzione femminista volta a giustificare l’ideologia gay”, il ministro polacco della Giustizia, Zbigniew Ziobro aveva utilizzato anche queste parole per definire la Convenzione di Istanbul, a motivazione della sua richiesta ufficiale di ritirare il paese dal testo, ratificato nel 2015. Dal suo punto di vista i principi lì enunciati non sono in linea con quelli del governo polacco, che è in effetti guidato da un partito di estrema destra, Diritto e giustizia (PiS). E, come spesso accade in queste situazioni, ha fatto riferimento a una presunta “ideologia gender” che verrebbe veicolata attraverso il documento del Consiglio d’Europa.
La Polonia è già da un po’ di tempo che cerca di limitare i diritti delle donne e delle persone omosessuali: il 22 ottobre scorso la Corte costituzionale della Polonia ha dichiarato incostituzionale l’accesso all’aborto in caso di “gravi e irreversibili malformazioni fetali o malattie incurabili che minaccino la vita del feto“: una sentenza che – come hanno commentato Amnesty International, il Centro per i diritti riproduttivi e Human Rights Watch – danneggerà ulteriormente le donne e le ragazze e violerà i loro diritti umani.
Quello che appare come l’inizio del tramonto dei diritti delle donne sembra in qualche modo rappresentato dalla notizia della morte di una grande scrittrice e letterata egiziana, Nawal al-Saadawi, scomparsa domenica 21 marzo. Una vestale della libertà che ha dato tutta la sua vita per combattere pregiudizi e condividere la propria storia e le proprie prospettive ispirando – nei suoi romanzi, saggi, autobiografie e discorsi – generazioni di donne.
Autrice di cinquanta libri, tradotti in trenta lingue, si è sempre espressa contro la poligamia, l’uso del velo islamico, la disuguaglianza dei diritti di eredità tra uomini e donne nell’Islam e soprattutto le mutilazioni genitali femminili, che riguardano oltre il 90% delle donne egiziane.
La sua schiettezza e le sue posizioni audaci su argomenti considerati tabù da una società egiziana in gran parte conservatrice l’hanno messa nei guai con le autorità, le istituzioni religiose e gli islamisti. In passato è stata anche accusata di apostasia e attacco all’Islam. Per anni è stata costretta a portare avanti le sue lotte ideologiche in esilio dagli Stati Uniti, solo a fine vita è potuta tornare al Cairo, stando accanto ai suoi figli.