Le dimissioni forzate del primo ministro turco Ahmet Davutoğlu
suggeriscono una cosa sola: il presidente Erdoğan, totalmente assorbito dalla
sua brama di potere, non tollererà più nessuno nel suo governo che si discosti
dalle sue posizioni politiche. Il primo ministro Davutoğlu non ha fatto eccezione.
Anche se la costituzione turca garantisce al primo ministro pieni poteri
esecutivi, lasciando al presidente un ruolo prevalentemente cerimoniale, non è questo
ciò che Erdoğan aveva in mente quando ha chiesto all’allora primo ministro
Davutoğlu di formare un nuovo governo dopo le ultime elezioni.
L’ambizione di Erdoğan e la linea aggressiva nel voler
diffondere la sua agenda islamica sono i fattori che hanno determinato ogni sua
mossa politica. Cercare di trasferire a livello costituzionale il potere esecutivo
del paese alla presidenza è l’ultimo passo verso il consolidamento legale del
suo potere, nonostante questo potere sia già stato da lui esercitato durante i
suoi undici anni da primo ministro.
Per più di 15 anni, Davutoğlu è stato un fedelissimo di Erdoğan – prima come
suo primo consigliere di politica estera, poi come ministro degli Esteri e,
negli ultimi due anni, come primo ministro scelto personalmente dal presidente.
Erdoğan ha scelto Davutoğlu per questa carica proprio perché
si aspettava che questi continuasse ad essere il suo “Yes man”. Dovendo egli assumere
la leadership dell’AKP in quanto primo ministro, Erdoğan si aspettava che Davutoğlu
spingesse per la trasformazione del ruolo cerimoniale del presidente a carica più
potente a livello di potere esecutivo in Turchia; trasformazione che Davutoğlu
ha promosso in maniera tiepida, visto che ciò avrebbe diminuito in modo considerevole
il suo potere a livello costituzionale.
Non a caso, una volta assunta la presidenza, Erdoğan ha
continuato a presiedere le riunioni di gabinetto e ha anche stabilito un
governo-ombra con una manciata di consulenti di fiducia. Ha volutamente messo
da parte Davutoğlu, che si è silenziosamente risentito per l’usurpazione da
parte di Erdoğan del suo ruolo e delle sue responsabilità di primo ministro,
come se nulla fosse cambiato.
La premiership è diventata una carica meramente cerimoniale
e la presidenza si è invece trasformata in un ufficio potentissimo, senza alcun
emendamento costituzionale formale che gli conceda legalmente l’autorità
assoluta che sta attualmente esercitando.
Ho conosciuto Davutoğlu da quando era il capo consigliere di
Erdoğan e l’ho trovato un uomo di integrità e visione, sempre dalla parte dei
moderati, impegnato a rendere la Turchia un potenza stabilizzatrice a livello regionale
e un attore importante sulla scena internazionale.
Ho avuto molte opportunità di parlare con Davutoğlu faccia a
faccia sulle relazioni tra Turchia e Israele, dato che sono stato attivamente
coinvolto dietro le quinte per mitigare il loro conflitto derivante dall’incidente
della Mavi Marmara.
In un’altra occasione, ho organizzato dei negoziati di pace
israelo-siriani con mediazione turca, non solo per la sua vicinanza e (all’epoca)
per i buoni rapporti con Siria e Israele, ma anche perché sapevo che Davutoğlu
sarebbe stato l’interlocutore ideale.
Inoltre, giocando un ruolo del genere, Davutoğlu è stato
anche molto coerente nell’impegno a realizzare la sua filosofia politica di
‘zero problemi con i vicini’, che ha inizialmente portato a relazioni
amichevoli e di cooperazione della Turchia con la maggior parte dei suoi
vicini.
L’ambizione di Erdoğan di diventare il perno della regione
attraverso il suo approccio politico sfrontato, invece, non ha fatto altro che
creare problemi con tutti i paesi vicini. Un ex funzionario turco di massimo
livello mi ha detto che se a Davutoğlu fosse stata data la possibilità di portare
avanti la sua visione di politica estera, oggi la reputazione regionale della
Turchia sarebbe completamente diversa.
Nel corso degli ultimi due anni, tuttavia, molti conflitti
tra i due hanno cominciato ad emergere. Mentre Davutoğlu, nel tentativo di trovare
una soluzione, ha cercato di rinnovare i negoziati di pace con il Partito dei
Lavoratori del Kurdistan (PKK), Erdoğan non solo ha rifiutato, ma ha promesso
di combattere fino all’uccisione dell’ultimo dei ribelli del PKK.
Inoltre, anche se Davutoğlu non ha mai criticatoErdoğan
pubblicamente sui sistematici attacchi alla libertà di stampa,
sull’incarcerazione dei giornalisti, e sulle violazioni dei diritti umani, non
era d’accordo su queste misure illecite e non è riuscito nello sforzo di
persuadere il suo capo ad alleggerire la pressione sulla stampa.
L’insistenza di Erdoğan nel voler mettere a tacere qualsiasi
critica e la costante erosione di ciò che resta della democrazia turca ha
praticamente sigillato (contrariamente a ciò che viene detto pubblicamente)
ogni prospettiva per la Turchia di diventare un membro dell’UE; prospettiva che
Davutoğlu ha cercato di realizzare con zelo.
Oltre a tutto ciò, Erdoğan sta ora cercando di togliere ai
parlamentari curdi che si battono per la semi-autonomia l’immunità politica,
questo per consentire il loro processo per legami con il PKK:Davutoğlu ha
obiettato in privato. Ora, viene lasciato al prossimo Primo Ministro il compito
di realizzare questo progetto illegale volto a soddisfare la draconiana volontà
di Erdogan.
Infine, mentre Davutoğlu era impegnato nel suo tentativo di
raggiungere un accordo con l’Unione Europea per riportare in Turchia i migranti
illegali in cambio della liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi nella
regione di Schengen, Erdoğan ha sminuito pubblicamente gli sforzi di Davutoglu
per privarlo di tutti i vantaggi politici che potrebbero derivare dal suo
successo.
Il leader del Partito Popolare Repubblicano
dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, ha condannato il modo in cui Davutoğlu è
stato tagliato fuori, affermando che “le dimissioni di Davutoğlu non
devono essere percepite come una questione interna di partito. Tutti i
sostenitori della democrazia devono resistere a questo golpe”.
È interessante notare che, in quello che è stato considerato
come un discorso di addio al parlamento, Davutoğlu ha dichiarato che
“nessuno ha mai sentito una parola contro il nostro presidente uscire dalla
mia bocca, dalla mia lingua, dalla mia mente, e nessuno lo farà.”
Per me e per molti altri osservatori le parole di Davutoglu
hanno espresso l’esatto contrario di quello che sembrava voler dire: cioè, che
Erdoğan è al di là di ogni critica. Non c’era un modo più diplomatico di dirlo per
non essere accusato da Erdoğan di tradimento, come succede abitualmente a
chiunque si opponga alle sue posizioni politiche, qualsiasi sia questione.
A causa degli scossoni politici in tutto il Medio Oriente,
dell’afflusso di milioni di rifugiati siriani e della battaglia contro l’ISIS,
il ruolo della Turchia è diventato sempre più importante.
Anche se gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono irritati
dall’assurda condotta di Erdoğan, si sentono costretti a trattare con lui, per
quanto ciò possa risultare sgradevole. Lasciando ad Erdoğan la possibilità di drenare
ogni oncia di sangue delle potenze occidentali al fine di servire la sua agenda
personale.
Quando la Costituzione viene utilizzata come strumento per
prendere il potere, quando le teorie del complotto giustificano una crudele
caccia alle streghe, quando le persone sono terrorizzate a parlare
pubblicamente di politica, quando i giornalisti sono detenuti senza processo,
quando la comunità accademica viene regolarmente attaccata, quando i diritti
umani vengono gravemente violati, e quando i principi democratici vengono
calpestati, tutto ciò non rappresenta solo una mera farsa per la Turchia, ma
una vera e propria tragedia.
Con la partenza di Davutoğlu, e con un timbro di gomma
dell’AKP, la Turchia è diventata una dittatura de facto, non essendoci più
nessuno ad ostcolare Erdoğan.
E’ un giorno triste per il popolo turco, dato che il paese è
ora governato da un dittatore spietato senza un sistema di controlli, senza
responsabilità e senza alcuna prospettiva di cambiamento, almeno finché Erdogan rimane
al potere.
Il popolo turco dovrebbe ancora una volta scendere in
piazza, ma questa volta dovrebbe resistere fino a che Erdogannon cede o si
dimette.
In caso contrario, la Turchia continuerà a correre
rapidamente verso un futuro sempre più tetro, in cui la libertà apparterrà al
passato e in cui un regime autoritario guidato da un spietati leader sarà una
realtà consolidata.
— L’analisi di Alon Ben-Meir, professore di relazioni internazionali ed esperto di Medio Oriente alla New York University
— Traduzione a cura di Riccardo Venturi
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