In queste ore si susseguono analisi e commenti che riguardano la vicenda che ha coinvolto il rapimento e la liberazione della cooperante Silvia Romano, ma il tema del terrorismo internazionale e dei rapimenti riguarda, purtroppo, anche altri italiani tuttora dispersi. Tra strategie di prevenzione e diversi approcci di gestione dei rapimenti, non è semplice orientarsi tra le politiche dei diversi stati. TPI ha intervistato Matteo Pugliese, ricercatore associato all’ISPI di Milano, esperto di sicurezza internazionale, antiterrorismo e geopolitica.
Ci sono altri italiani attualmente in condizioni di prigionia?
Sì, il missionario Pierluigi Maccalli è stato sequestrato nel 2018 in Niger ed è tenuto in ostaggio in Mali da jihadisti legati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Ad aprile è stato diffuso un video insieme a Nicola Chiacchio, un altro italiano sequestrato mentre faceva turismo nel Sahel. A marzo, sempre in Mali, è stato liberato Luca Tacchetto insieme alla sua fidanzata canadese, sequestrati in Burkina Faso nel 2018. Padre Paolo Dall’Oglio fu catturato dallo Stato Islamico a Raqqa nel 2013 e non si sono più avute sue notizie certe, ma è quasi sicuramente morto. Infine, Fabrizio Pozzobon risulta disperso in Siria, forse prigioniero di banditi legati agli jihadisti di Al Nusra.
Che tipo di strategia si sta attuando nei confronti di questi cittadini?
Il governo sta lavorando tramite la Farnesina e l’Aise (intelligence esterna) per negoziare il loro rilascio. Queste trattative devono essere condotte nel silenzio mediatico per non mettere a rischio la vita degli ostaggi ed evitare fughe di notizie. Di solito ci si affida ad una serie di intermediari che conoscono la situazione locale e sanno stabilire una comunicazione con i sequestratori. L’intelligence collabora anche con servizi stranieri, nel caso di Silvia Romano quelli turchi che in Somalia dispongono di ampie infrastrutture e capacità militari.
Ci sono cittadini europei in condizioni di prigionia?
Ostaggi francesi, inglesi e di altri paesi europei sono stati recentemente liberati o sono tuttora prigionieri in Africa e in Asia, specialmente in Mali e paesi saheliani dove è possibile nascondere gli europei in località remote e inaccessibili, ma anche in Siria, Yemen, Filippine e altrove. Al Qaeda ricorre spesso ai sequestri per finanziarsi, mentre lo Stato Islamico non usa questo strumento a fini estorsivi. Al Shabaab, l’organizzazione che ha rapito Silvia Romano, è la filiale somala di Al Qaeda.
Qual è l’approccio degli altri paesi europei nei confronti di persone tenute in ostaggio?
I paesi europei adottano vari approcci ai sequestri. Il Regno Unito, salvo eccezioni, non tratta con i terroristi e tenta la liberazione degli ostaggi con operazioni delle forze speciali, così come gli Stati Uniti. Questi blitz talvolta hanno successo, ma in altri casi falliscono come avvenne nel 2012 in Nigeria, quando Franco Lamolinara rapito insieme a un inglese morì nel corso della sparatoria fra Boko Haram e le forze speciali britanniche. La Francia applica una dottrina mista: in certi casi negozia riscatti, in altri usa la forza come in Somalia nel 2013 o in Burkina Faso nel 2019, ma con esiti drammatici. Italia, Germania e Spagna pagano i riscatti, tramite triangolazioni con paesi terzi o mediatori. Non sempre le trattative finiscono bene, come per Silvano Trevisan in Nigeria nel 2013 o per Fausto Piano e Salvatore Failla in Libia nel 2016.
Qual è il problema del finanziamento del terrorismo legato ai riscatti e ai sequestri?
La vita umana non ha prezzo, la liberazione di Silvia Romano come di altri ostaggi dimostra la volontà dello Stato di salvare i propri cittadini, un valore da difendere. La comunità internazionale ha cominciato a porsi anche il problema del finanziamento del terrorismo alimentato dai riscatti, una vera e propria industria.
Quanto vale questa “industria” e come vengono investiti i proventi?
Secondo la compagnia Stratfor, dal 2003 al 2012 i governi hanno versato circa 89 milioni di dollari ad Al Qaida nel Maghreb Islamico per riscatti. Secondo il New York Times, tra il 2008 e il 2014 Al Qaida avrebbe guadagnato 125 milioni di dollari dai sequestri. Questi introiti vengono investiti nell’acquisto di armi ed esplosivi o per finanziare attacchi, contro hotel frequentati da occidentali in Africa, ma anche in Europa. A dicembre 2019 un’autobomba di Al Shabaab a Mogadiscio ha causato 92 morti, mentre a ottobre gli jihadisti somali avevano attaccato un convoglio di militari italiani della missione UE.
Cosa bisognerebbe fare per evitare questi episodi?
L’unica strategia è una seria politica di prevenzione. Il governo deve informare i cittadini dei rischi che corrono in paesi dalla sicurezza precaria. Coloro che per turismo o iniziative personali si recano in zone notoriamente pericolose devono essere diffidati e bloccati in collaborazione con i governi locali. Mentre per la fondamentale attività di cooperazione allo sviluppo, svolta da numerose organizzazioni non governative, è necessario che queste operino in stretto contatto con la Farnesina e siano registrate tra quelle ufficiali. Mandare persone sole o con poca esperienza allo sbaraglio può costare la vita o un sequestro. Anche gli altri paesi europei adottano simili politiche di controllo.
Quali azioni dovrebbe compiere una persona che desidera fare volontariato all’estero?
Dovrebbe affidarsi ad organizzazioni non governative e istituzioni con una solida reputazione sul campo, riconosciute idonee dalla Farnesina. Diffidare da associazioni improvvisate o con poca esperienza. La cooperazione internazionale per lo sviluppo e il volontariato sono strumenti fondamentali. Chi si affaccia a questo mondo dovrebbe farlo con esperienze graduali, informarsi sui rischi del territorio e dei paesi limitrofi, non esitare a segnalare alla propria organizzazione e alle autorità qualsiasi dubbio o minaccia alla sicurezza.
Quali scenari possiamo prevedere rispetto al futuro del terrorismo?
Il terrorismo si nutre anche dell’instabilità di stati falliti e regioni fuori controllo, in cui può creare “santuari” e operare indisturbato. Ha tentato di farlo in Siria ed Iraq, ma anche in Mali, Yemen, Afghanistan e altrove. L’industria dei sequestri resta un’importante fonte di finanziamento del terrorismo, che poi investe in nuovi attentati e massacri. Un modo efficace per ridurla è una rigorosa politica di prevenzione e monitoraggio dei propri cittadini all’estero, nei paesi a rischio.
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