Abiayala è la parola con cui diverse popolazioni indigene colombiane definiscono ciò che noi chiamiamo “America”. In lingua Gunadule, Abiayala si traduce come “terra che sanguina”. Per i 115 popoli indigeni che vivono oggi in Colombia, abitare il continente americano significa sopravvivere alle ferite: un tempo quelle della conquista spagnola, ora quelle provocate dalla violenza delle narcomafie e delle grandi multinazionali minerarie.
È il caso delle oltre 30 etnie autoctone a rischio di sopravvivenza a causa delle conseguenze del conflitto armato colombiano: da oltre quarant’anni, i loro territori ancestrali sono stati trasformati in accampamenti di guerra o in campi di produzione di coca, papavero da oppio e marihuana. Il mancato compimento degli accordi di pace tra Stato e FARC, ratificati nel 2016, ha permesso il consolidamento di nuovi gruppi armati di diversa matrice (guerriglieri, paramilitari e narcomafie) in numerose aree periferiche del paese popolate da comunità indigene.
Una larga parte dei gruppi armati insorgenti si occupa di produrre e gestire il traffico di cocaina e marihuana attraverso lo sfruttamento violento delle popolazioni locali: cittadini e attivisti che si oppongono alla loro presenza vengono regolarmente assassinati, talvolta con la compiacenza degli apparati militari statali, in un brutale sistema di controllo del territorio che ha trasformato la Colombia nella prima nazione al mondo per numero di omicidi di attivisti per i diritti umani (più di seicento tra il 2017 e il 2021). Quasi la metà degli attivisti uccisi negli ultimi cinque anni erano indigeni, i quali combattevano per il diritto alla pace e alla vita delle loro comunità, da decenni bersagliate nel fuoco incrociato di una guerra di cui non sono partecipi.
È questo il caso delle 240mila persone che appartengono alla comunità Nasa, nel cuore delle Ande colombiane. Da alcuni anni, i Nasa stanno attuando una strategia organizzata di difesa delle proprie terre dall’invasione del narcotraffico, dei gruppi armati e delle multinazionali della canna da zucchero. Se in alcune zone la popolazione nasa sta riuscendo nell’impresa di impedire ogni ingerenza esterna nei propri territori, in altre aree la comunità sta soccombendo alle invasioni armate delle narcomafie.
Ciudad perdida. La città perduta. Così è conosciuta la zona rurale di Toribío, alle pendici della Cordigliera Centrale delle Ande colombiane. La denominazione si deve all’inquietante effetto visivo fornito dalle montagne che circondano il villaggio: ogni giorno, all’imbrunire, centinaia di ettari di campi di marihuana si illuminano contemporaneamente, rivelando il volto occulto dei silenziosi tramonti andini.
Le ‘costellazioni’ sono piantagioni ad alta intensità produttiva, sostenute da un complesso sistema elettrico che si attiva ogni notte per accelerare il processo di crescita delle piante. L’energia per le migliaia di lampadine disposte lungo le Ande viene sottratta alla rete elettrica della popolazione di Toribío, il cui centro urbano convive ogni settimana con prolungati blackout, necessari per soddisfare le esigenze dei narcos: gli intensissimi ritmi di raccolta hanno reso Toribío il più grande polo nazionale di produzione di marihuana -oltre a dominare il mercato mondiale della cocaina, la Colombia si spartisce con il Paraguay il controllo del commercio della marihuana in America del Sud.
Il nostro viaggio inizia dunque a Toribío, nel cuore della regione del Cauca, uno dei maggiori crocevia di violenza della storia colombiana. Le poche ore di bus che separano il villaggio dalla città di Cali restituiscono la memoria viva della logorante guerra tra Stato e gruppi guerriglieri: murales firmati dai gruppi armati sulle pareti delle case, tracce di attentati e sparatorie nei centri urbani, enormi distese di piantagioni di coca e marihuana. L’importante dispiego di forze militari nelle valli circostanti, senza eguali in Colombia, non attenua la sensazione di un assoluto abbandono statale.
Salendo verso le montagne, gli appostamenti militari lasciano spazio ai posti di blocco delle dissidenze delle FARC. Sono loro a gestire il più grande centro di produzione di marihuana della Colombia, a discapito della popolazione nasa, già abituata da decenni a invasioni armate di ogni matrice. A causa del suo posizionamento militarmente strategico, infatti, negli ultimi sessant’anni Toribío è stato il municipio colombiano più colpito da attacchi armati (oltre seicento), culminati nell’autobomba delle FARC che distrusse l’intero centro urbano il 9 luglio del 2011. Nello stesso periodo la popolazione locale era entrata nel mirino di gruppi parastatali: in una caccia ossessiva ai guerriglieri, il solo fatto di abitare in una zona controllata dalle FARC aveva trasformato gli abitanti di Toribío in nemici dello Stato; diverse centinaia di indigeni furono massacrati negli anni Novanta e Duemila da gruppi paramilitari al servizio del governo colombiano.
Oggi, il gruppo dissidente Dagoberto Ramos delle FARC ha preso il controllo del municipio, trasformandolo in un’immensa fabbrica estensiva di marihuana a cielo aperto. Le piantagioni sono lì, illuminate, tutte le notti, di fronte alle postazioni dell’esercito. Ma sono i guerriglieri a controllare il territorio attraverso una rete capillare di posti di blocco, in cui esigono una tassa a produttori e compratori della droga, oliando un immenso mercato illecito che assicura la produzione di oltre milletrecento tonnellate di marihuana all’anno. Un traffico redditizio sia per gli attori armati che per quella piccola parte di contadini di etnia nasa che ha scelto di abbandonare le coltivazioni tradizionali di patate, fagioli, mais e caffè per le più remunerative piantagioni di marihuana. Ci dice uno di loro: “Una libra di patate a quanto la vendi? 1000 pesos. Una libra di mais? Ancora meno. Una libra di marihuana? 70.000 pesos. Frutta più di qualunque altra merce”.
Mentre una minoranza della comunità si arricchisce, nei confronti di chi si oppone alle piantagioni è in atto un vero e proprio sterminio. “La situazione è difficile, perché ora siamo nasa contro nasa”, racconta con gli occhi lucidi un anziano abitante di Toribío. Le disarmonie causate da narcotraffico al modello di società tradizionale dei nasa hanno portato i governatori indigeni locali a tentare più volte di estirpare le coltivazioni illecite, con arresti e denunce pubbliche. Se le grida d’aiuto sono rimaste inascoltate dagli apparati statali, la risposta violenta della guerriglia Dagoberto Ramos ha portato a decine di attentati, massacri e sequestri nei confronti delle autorità ancestrali e degli abitanti di Toribío.
L’attacco più cruento è certamente quello della mattinata del 29 ottobre 2019, quando l’automobile in cui viaggiava la governatrice nasa Cristina Bautista, fortemente critica verso la presenza delle piantagioni di marihuana, viene assaltata a colpi di fucile dai membri della guerriglia Dagoberto Ramos. Insieme a Cristina, perdono la vita anche le quattro Guardie Indigene che la stavano accompagnando. Di episodi simili è costellata la storia recente di Toribío, dove le dissidenze delle FARC continuano a reclutare giovani locali per espandere la propria forza militare ed economica. I sanguinosi metodi di controllo del territorio, tuttavia, non hanno messo a tacere le battaglie della comunità, ancora ispirate a una celebre frase pronunciata da Cristina Bautista pochi mesi prima di morire: “Se parliamo ci uccidono. Se stiamo zitti anche. Quindi parliamo!”.
“Non li faremo mai entrare. Anni fa era Toribío il cuore della resistenza nasa, ma oggi sono finiti nelle mani del narcotraffico. Il cuore della resistenza nasa oggi è Pioyá”. Le parole di Constanza, un’indigena nasa che da decenni combatte la presenza del narcotraffico nei territori ancestrali, raccontano l’altro volto delle montagne popolate dalla comunità nasa.
Se all’altezza di Toribío le Ande si illuminano ogni notte a segnalare la presenza delle coltivazioni gestite dai narco-guerriglieri, nelle vette di Pioyá, a tre ore di distanza da Toribío e a circa 3000 metri di altitudine, la popolazione nasa sta riuscendo a impedire l’accesso ai gruppi armati nel territorio, grazie alla straordinaria organizzazione collettiva della Guardia Indigena.
Istituita nel 2001 e composta dalla quasi totalità della popolazione maschile della comunità -oltre che da diverse donne-, la Guardia Indigena è un’organizzazione non armata di controllo collettivo del territorio. Ispirandosi alle celebri resistenze dei loro antenati contro gli invasori spagnoli, i nasa hanno istituito la Guardia Indigena secondo il principio andino tradizionale della Minga: un’azione collettiva in cui ogni persona apporta uno sforzo personale per il beneficio della comunità.
Grazie a una fitta rete di punti di controllo e all’efficacia delle comunicazioni via walkie talkie, a Pioyá le Guardie Indigene hanno messo in atto una vigilanza serrata e costante di ogni area del territorio. Non appena viene avvistata una persona armata, la Guardia coinvolge tramite ricetrasmittente l’intera popolazione. Immediatamente, la comunità sopraggiunge a gruppi di centinaia di persone, per poter arrestare il membro del gruppo armato e sottoporlo alla giustizia ancestrale.
In questo modo, a Pioyá le Guardie Indigene hanno fermato più volte l’invasione dei narcotrafficanti sul nascere. Un episodio del 2018, raccontato da un coordinatore della Guardia Indigena di Pioyá, permette di comprendere la portata dello sforzo comunitario di difesa del territorio: «Segnalano alla comunità che i narcos sono saliti verso il monte. Era mezzanotte. Partiamo in dieci. Riusciamo a raggiungerli. Continuavano ad arrivare Guardias ad appoggiarci. Da 10 che eravamo siamo diventati 5000. In mattinata catturiamo i narcos: avevano diversi fucili, 4 granate e 375 munizioni. Li abbiamo condannati secondo il tribunale autonomo, poi abbiamo distrutto le loro armi. Questo gesto ci è costato ulteriori minacce: ogni fucile costa 12-14 milioni di pesos [c.a 3000 euro], ed erano sette, ma solo così Pioyá può continuare ad essere un territorio di convivenza, di pace e di resistenza».
Aggiunge Constanza: «Loro erano armati, ma non potevano ucciderci. Eravamo tantissimi, e insieme una comunità non ha paura. Abbiamo bruciato le loro raffinerie di cocaina. Ci arrivarono tante minacce: avevamo fermato un giro di soldi enorme».
Oltre a combattere la circolazione di armi, a Pioyá la comunità ha deciso di usare il pugno duro nei confronti delle coltivazioni di marihuana e coca. Qualunque pianta finanzi il narcotraffico viene immediatamente estirpata dalla comunità, tramite azioni collettive in cui le piantagioni vengono fisicamente distrutte. In questo modo, Pioyá è rimasto uno dei pochissimi territori della regione del Cauca in cui non sono presenti coltivazioni illecite: la pianta della coca si coltiva esclusivamente per prodotti e rituali ancestrali.
Alcuni mesi fa, nelle vicine terre di Caldono, una di queste azioni è costata una violenta aggressione alla comunità da parte di un gruppo di narcos armati affiliati alla dissidenza Dagoberto Ramos. Il 20 aprile del 2021 le dissidenze uccidono in un agguato Sandra Liliana Peña Chocué, autorità indigena nasa, che si era schierata in prima linea contro la presenza di coltivazioni di coca e marihuana. Due giorni dopo, il 22 aprile 2021, la comunità organizza alcune attività in sua memoria. Tra queste, si programma un’azione collettiva di distruzione delle coltivazioni di coca che finanziano il narcotraffico.
Mentre centinaia di persone stanno procedendo a estirpare le piante di coca, alcuni esponenti del gruppo armato attaccano la popolazione indigena a colpi di mitragliatrice: 32 indigeni nasa rimangono feriti. In tutta risposta, la comunità insegue con i propri mezzi di trasporto il gruppo armato: riesce a bloccare le camionette su cui si stanno allontanando e cattura dodici di loro. Verranno poi sottoposti alla giustizia ancestrale. Le condanne più dure arrivano a 60 anni di detenzione per l’omicidio della governatrice Sandra Liliana Peña Chocué.
Nonostante le continue intimidazioni dei gruppi armati, che lo Stato colombiano non ha saputo arginare e che si trovano oggi a imporre il monopolio della violenza nei territori indigeni, la resistenza di Pioyá prosegue con i mezzi che ha a disposizione: la giustizia ancestrale, le strategie di difesa disarmata del territorio e uno grande senso di comunità.
La ragione ultima di questa lotta la illustra Vilma Almendra, scrittrice nasa-misak: “Io sono figlia del popolo nasa e del popolo Misak. Abbiamo alle spalle millenni di resistenza. La terra tradizionalmente si vedeva come Madre. Negli ultimi tempi stanno provando a sottometterci […], alcuni di noi non si sentono più figli della terra, ma difendono la trasformazione della terra in mercato. Contro questo processo bisogna resistere”. Aggiunge Emmanuel Rozental, medico e attivista colombiano: “Il narcotraffico trasforma le fondamenta dello spirito della lotta indigena: l’amore per il territorio. Quando la Madre Terra si trasforma in un affare, stanno togliendo la gente dalla terra. E quando togli l’indigeno dalla terra, l’indigeno smette di essere indigeno”.
Le storie comunitarie di resistenza al narcotraffico sono ancora fenomeni eccezionali, in controtendenza rispetto a un processo di indebolimento culturale e politico delle comunità indigene nasa, che oltrepassa il solo schema di attuazione delle narcomafie. Dove non sono i narcos a controllare con la violenza il territorio, sono le multinazionali minerarie e della canna da zucchero, che agiscono come latifondisti. Oltre a un conflitto armato che continua a perseguitare le periferie più buie della Colombia, dove storie come quella di Pioyá sono adombrate dall’espansione, letale e inarrestabile, di Città Perdute come Toribío.
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