La prima volta che Nesreen si cimentò in una breve maratona promossa dal club dei maratoneti di Jeddah, in Arabia Saudita, il suo fisico dovette esporsi a uno sforzo fisico inumano. Fu costretta a indossare obbligatoriamente l’abaya, ossia l’abito lungo nero che lascia scoperte solo le mani, i piedi, e un velo che copriva il volto, anche per correre e raggiungere il traguardo sotto il sole cocente. Quel giorno la temperatura superava i 40 gradi.
Al di là del caldo soffocante e dell’abbigliamento poco consono per praticare la corsa, Nesreen madre di quattro figli temeva soprattutto per la sua incolumità. Sì, perché iscriversi a un’associazione sportiva composta da membri di sesso opposto che non hanno alcun legame familiare è proibito dalla legge religiosa saudita.
“L’idea di correre per strada era un’idea lontana, una cosa alla quale non potevo nemmeno pensare. Ma alla fine, la passione per questo tipo di attività mi ha spinta a iscrivermi”, ha raccontato Nesreen, che da quasi un anno corre con la Jeddah Running Collective (JRC).
Si tratta di una sorta di club “segreto” fondato nel 2013, che organizza in maniera frequente delle maratone nelle strade meno battute di Jeddah ed è composto attualmente da un centinaio di membri, tra maschi e femmine. La sua esistenza sarebbe irrilevante e priva di senso nel resto del mondo, ma non lo è in un paese come l’Arabia Saudita dove le donne non possono guidare, gareggiare in competizioni sportive o anche partecipare a tornei sportivi.
La sua stessa ragion d’essere sfida con coraggio l’attuale status quo. Da tempo, il governo saudita ha limitato l’accesso femminile all’atletica mediante politiche che impediscono, in maniera efficace, di potersi allenare nella maggior parte delle palestre, di fare sport nelle scuole e di praticare con squadre di club sponsorizzati dallo stato.
Inoltre, c’è una netta differenza fra le donne che tentano di praticare uno sport in Arabia Saudita e le atlete che in questi giorni stanno gareggiando alle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Il regno saudita ha di fatto inviato quattro donne ai Giochi olimpici in Brasile, come rappresentanti del team saudita.
Una mossa strategica volta a mantenere buoni rapporti con la comunità internazionale, ma che di fatto non risolve il problema entro i confini del regno saudita, dove le politiche oppressive continuano a essere applicate. Le atlete mandare a Rio per rappresentare l’Arabia Saudita hanno doppia nazionalità, come la maratoneta Sarah Attar (nata in California da padre saudita), oppure hanno trascorso lungo tempo fuori dai confini nazionali formandosi all’estero.
Tutte hanno in comune la decisione di aver lasciato il proprio paese d’origine, dove è difficile per le donne accedere agli impianti sportivi e coltivare la loro passione. Molte delle atlete iscritte al club di Jeddah non hanno la medesima opportunità a livello internazionale. Tuttavia, spinte dalla passione e dalla voglia di mettersi in gioco, continuano a praticare questo sport.
(Qui sotto il team del Jeddah Running Collective composto da uomini e donne, senza alcuna distinzione)
Il team dei maratoneti maschi e femmine iscritti al club si riuniscono almeno due volte a settimana per allenarsi e correre distanze brevi, mentre una volta al mese organizzano maratone più lunghe.
Nella maggior parte dei casi, i percorsi scelti sono aree isolate fuori dalla città o all’interno di piste al coperto prese in affitto, ma gli allenamenti avvengono per lo più su sentieri poco battuti che si estendono in tutta Jeddah.
Accanto agli uomini che corrono con indosso pantaloncini corti e t-shirt, le maratonete sono costrette a indossare l’abaya e coprire i loro volto con delle sciarpe o con un velo.
“Il vestito inizialmente era scomodo, ma poi con il tempo ho imparato ad adattarmi. L’abaya era troppo lungo e non sapevo come legarlo affinché non mi desse fastidio. Ma ho scoperto che tutte le donne del club ne indossavano uno”, ha raccontato Nesreen.
L’associazione non ha avuto sempre vita facile. Alcuni atleti sono stati spesso oggetto di insulti sprezzanti, mentre altri sono stati perfino interrogati dalla polizia e detenuti in carcere. Uno dei tre fondatori del club ha raccontato che una sera le auto della polizia sono arrivate, hanno circondato il luogo e hanno arrestato diversi membri con l’accusa di aver messo in piedi un’associazione illegale dove maschi e femmine potevano mischiarsi.
“Siamo tutti consapevoli delle conseguenze nelle quali si potrebbe incappare e di ciò che potrebbe accadere, ma continuiamo nel pieno rispetto di quello che è il nostro progetto”, ha precisato ancora uno dei fondatori del club.
L’associazione è stata creata con la duplice missione di promuovere uno stile di vita attivo e farsi promotore nella lotta per l’uguaglianza di genere. Ciò è dimostrato ampiamente dal fatto che fin dal sua nascita, quasi tre anni fa, il club ha attirato più iscritti femminili rispetto a quelli maschili.
E se per Nesreen praticare la corsa equivale a una sorta di terapia sociale, grazie alla quale ha potuto ampliare anche la sua cerchia di conoscenze, per molte donne che vi hanno aderito significa provare un raro momento di libertà da un regime che controlla molti aspetti della loro vita quotidiana.
Negli ultimi anni, le donne nel regno saudita hanno fatto notevoli progressi. Nel dicembre del 2015, hanno potuto votare per la prima volta nella loro vita. Ma i cambiamenti sono lenti e limitati e l’Arabia Saudita rimane comunque uno degli stati più oppressivi in fatto di libertà soprattutto femminili.
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