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    Cina Latina

    Il Sudamerica segue l’Africa nel diventare il nuovo bazar di materie prime per la Cina

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 29 Mar. 2013 alle 12:51 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:36

    Il governo cinese si mostra sempre più interessato alle materie prime presenti in Sudamerica ed è disposto a finanziare lo sviluppo dei Paesi fornitori, seguendo lo stesso modello applicato in Africa. La regione è ricca di commodities di grande interesse per i cinesi, come soia, petrolio, rame e ferro. Il Dragone è diventato così tra i principali, se non il primo, mercato per le esportazioni di tutti i Paesi della regione. Infatti, il valore degli scambi commerciali tra i Paesi sudamericani e la Cina è aumentato, negli anni compresi tra il 2000 e il 2011, da circa 7,8 a 188 miliardi di euro.

    In cambio la Cina, grazie alla sua smisurata potenza finanziaria, offre fondi e accesso a finanziamenti anche a Paesi che recentemente hanno subito default, come Ecuador e Venezuela. Caracas, a esempio ha ricevuto dal 2007 più di 33 miliardi di euro in prestiti garantiti dalle sue riserve petrolifere, secondo Bloomberg più di quanto hanno speso gli Stati Uniti nella ricostruzione dell’Iraq tra il 2003 e il 2006. I prestiti hanno finanziato anche una cospicua crescita nella spesa pubblica che ha contribuito significativamente a far rieleggere Chavez. La scorsa settimana la Cina si è impegnata a investire circa 1,5 miliardi di euro nella Banca interamericana dello sviluppo (in inglese Inter-American Development Bank, Idb) per finanziare progetti sia pubblici che privati, con l’obiettivo di assistere i Paesi caraibici e latinoamericani a superare la crisi finanziaria globale, alleviando gli effetti della povertà e promuovendo la competitività.

    Tuttavia, mentre Paesi come l’Argentina continuano a cercare l’assistenza di Pechino per superare situazioni economiche difficili, molti iniziano a trovare scomodo l’assistenzialismo d’oltreoceano. Questa ambivalenza è evidenziata in uno dei cablogrammi diffusi da Wikileaks, in cui si racconta della riluttanza del governo messicano a favorire in maniera troppo forte la presenza cinese perché, con le parole di un dirigente di un’agenzia governativa, “Non vogliamo essere la prossima Africa” e “vogliamo che lo sviluppo del nostro Paese ci appartenga”.

    In Ecuador, ultimamente, le critiche ai cinesi sono all’ordine del giorno. Il governo guidato da Rafael Correa ha deciso di concedere più di tre milioni di ettari di foresta amazzonica a compagnie petrolifere cinesi, come scrive il Guardian, che riporta un incontro avvenuto lunedì in un Hilton di Pechino tra politici ecuadoregni e rappresentanti delle compagnie petrolifere. La scelta ha scatenato le proteste dei gruppi di popolazioni indigene e l’accusa, lanciata contro i cinesi, di violare le loro stesse norme in materia d’investimenti esteri, che prevedono lo “sviluppo armonioso dell’economia, dell’ambiente e della comunità locali”. Già lo scorso anno, la Corte Interamericana dei diritti umani aveva vietato l’estrazione di giacimenti petroliferi in un territorio nell’Ecuador meridionale ricoperto dalla foresta pluviale, imponendo al governo di consultarsi con le popolazioni indigene prima d’intraprendere simili iniziative.

    In Perù invece ha sollevato critiche (e un po’ di stupore) l’ambizioso progetto di tagliare il monte Toromocho, alto 4.600 metri, e demolire il paesino che si trova nelle vicinanze, per consentire alla compagnia mineraria cinese Chinalco di estrarvi rame, argento e molibdeno, utilizzato nella lavorazione dell’acciaio. Chinalco si preoccuperà anche di trasferire tutti i 5 mila residenti di Morococha e di ricostruire il paese a 10 chilometri di distanza.

    Nonostante questi malumori, è difficile per i governi americani rinunciare alla mano tesa dalla Cina e alle sue generose offerte di finanziamento, a maggior ragione in una fase, ormai prolungata, in cui la stabilità dell’economia globale è messa quotidianamente in discussione.

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