Ecco perché per la Cina è così importante avere il controllo su Hong Kong
La decisione della Cina di imporre una legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, in luogo di una norma simile mai approvata in sede regionale perché da sempre avversata dall’opposizione dell’ex colonia britannica, riflette la crescente preoccupazione di Pechino per un allontanamento della città dalla madrepatria e per le sfide poste ai piani di espansione strategica, allo sviluppo e all’unità nazionale in vista del centenario del prossimo anno del Partito comunista cinese. Non a caso, la nuova legge mira a estendere anche a Hong Kong la giurisdizione degli organi repressivi dello Stato già attivi nel resto del Paese per contrastare ogni “attività” che “metta seriamente a rischio la sicurezza nazionale”, pur conoscendo i rischi di una mossa tanto grave.
Nonostante l’annoso dibattito sul declino della città nelle dinamiche della Cina e dell’intera regione del Sud-est asiatico, Pechino infatti non può e non vuole fare a meno del controllo dell’ex colonia britannica, per motivi sia economici che strategici, a prescindere dalle conseguenze. A questo scopo, il governo cinese è pronto persino a mettere in dubbio l’applicazione del principio “un Paese, due sistemi” che, secondo la Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, avrebbe dovuto regolare i rapporti tra Hong Kong e Pechino nei primi cinquant’anni dal ritorno della città alla madrepatria.
L’idea, proposta negli anni Ottanta dall’allora leader cinese Deng Xiaoping, fu determinante per il ricongiungimento dell’ex colonia britannica e successivamente anche di Macao alla nazione cinese, tanto da essere inserita nella Basic Law, lo statuto della città in vigore dal 1997. L’applicazione di questo principio fu però già allora compensato dall’obbligo, imposto sempre dalla Legge fondamentale di Hong Kong alle autorità locali, di promulgare norme e provvedimenti contro “qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione ed eversione contro il governo centrale della Repubblica popolare” e contro eventuali interferenze straniere nell’ex colonia britannica.
Il testo approvato oggi dal massimo organo legislativo cinese, anche se non ancora adottato in via definitiva e quindi attualmente non in vigore, aggira proprio le previsioni dell’articolo 23 della Basic Law, che obbliga il Consiglio legislativo di Hong Kong ad emanare una legislazione sulla sicurezza nazionale, mai approvata per le massicce proteste della cittadinanza susseguitesi fin dal 2003. Come mai tanta perseveranza nonostante le difficoltà incontrate negli ultimi decenni, la decisa opposizione dei residenti e i possibili rischi a livello interno e internazionale, di cui il regime è pienamente a conoscenza? Sebbene la posizione ufficiale di Pechino sostenga che la nuova legge “garantirà il successo del principio ‘un Paese, due sistemi’”, le frettolose e poco efficaci rassicurazioni delle massime autorità di Hong Kong e dell’ufficio di collegamento del governo cinese in città nascondono infatti la consapevolezza dei rischi di questa mossa, considerata evidentemente inevitabile.
Al momento, nemmeno le proteste internazionali, in particolare degli Stati Uniti, sembrano aver posto un freno alle mosse di Pechino, un po’ per la posizione ambigua di alcuni importanti attori come l’Unione europea, contraria alla nuova legge ma indecisa su eventuali sanzioni alla Cina, e un po’ per la stessa volubilità di Washington. Nonostante le recenti obiezioni del segretario di Stato, Mike Pompeo, le valutazioni sulla mancata autonomia di Hong Kong da parte del Congresso degli Stati Uniti e l’attuale campagna mediatica e legislativa contro il regime cinese decisa dal presidente Donald Trump e dal partito Repubblicano, la posizione della Casa Bianca sulle proteste nell’ex colonia britannica è infatti cambiata rapidamente e, visto il carattere del tycoon e i precedenti in altri contesti, potrebbe mutare ancora, magari per ragioni di convenienza.
In meno di un anno, Trump è passato dal definire “rivolte” le proteste a Hong Kong, a suggerire un incontro tra il presidente Xi Jinping e i manifestanti per risolvere la questione “umanamente”, a vantarsi di aver impedito l’annientamento della città, chiedendo al proprio “amico” Xi di non intervenire militarmente, fino alla firma del Hong Kong Human Rights and Democracy Act, che tante rimostranze ha sollevato a Pechino, e alla recente promessa di intervenire in caso di approvazione della nuova legge.
Se la postura di Washington sulla questione sembra dipendere da contingenze legate agli accordi commerciali e ai prossimi appuntamenti elettorali, la Cina pare invece intenzionata a proseguire il proprio percorso nonostante le possibili conseguenze, anche economiche. Nel corso della settimana seguente l’annuncio della presentazione della nuova legge a Pechino, l’indice azionario Hang Seng della borsa di Hong Kong ha perso oltre il 4,5 per cento a causa delle probabili ripercussioni che potrebbero comportare anche una fuga di capitali e di talenti dalla città, uno dei maggiori centri finanziari asiatici. Eppure nemmeno questo ha frenato la Cina, anzi. Tra le ragioni che spingono il regime ad aumentare il proprio controllo sull’ex colonia britannica figura proprio la sua importanza economica.
In un rapporto elaborato lo scorso anno da Credit Suisse, Hong Kong risultava la seconda regione più facoltosa al mondo dopo la Svizzera in termini di ricchezza per adulto, classificandosi al decimo posto a livello globale per numero di individui con un patrimonio personale superiore ai 50 milioni di dollari. Tutto questo nonostante il minor ruolo giocato dalla città nell’immaginario ma soprattutto nella vita economica del Paese asiatico. Pur mantenendo la propria natura di importante snodo commerciale e finanziario internazionale, sin dalla riunificazione, l’ex colonia britannica ha infatti perso molta della propria influenza sull’economia cinese.
Leggendo i dati della Banca mondiale, a parità di potere d’acquisto, il peso in termini di Prodotto interno lordo di Hong Kong sull’economia cinese è crollato dal 5,9 per cento del 1997 a poco più dell’1,89 per cento del 2018. Nello stesso periodo, il Paese asiatico ha invece registrato l’ascesa di vari centri commerciali e finanziari sul continente, come Shenzhen. In termini assoluti, questa moderna metropoli che collega l’ex colonia britannica al resto del territorio cinese ha accresciuto negli ultimi 20 anni il proprio peso nell’economia del Paese, arrivando ormai ad eguagliare quello di Hong Kong.
Se nel 1997 Pechino aveva bisogno dell’ex colonia britannica come fondamentale snodo portuale e aeronautico e hub finanziario, oggi gli scali marittimi di Shanghai, Ningbo e Shenzhen risultano altrettanto attivi dal punto di vista commerciale, mentre le borse di Shanghai e Shenzhen attirano sempre nuovi investimenti esteri. Inoltre, dopo la riunificazione, gli scambi tra l’ex colonia britannica e la Cina sono passati da poco più di un terzo a oltre la metà del totale delle importazioni e delle esportazioni cittadine. Questo ha trasformato sempre più la città da metropoli internazionale in Asia a porta del mondo della Cina. Il suo status di porto franco, esente da dazi doganali, ha permesso a Hong Kong di crescere ancora avvantaggiandosi di questa nuova posizione, ma ha reso l’economia dell’ex colonia sempre più dipendente dalla madrepatria, incoraggiando Pechino a incrementare il proprio ruolo politico in città, pur a costo di pagarne le conseguenze.
L’accresciuto ruolo di altri importanti centri finanziari in Cina continentale consente forse al governo cinese di assorbire eventuali shock economici dovuti a un aumento della repressione, ma non ridimensiona affatto l’importanza della città per Pechino, anzi. Quasi il 64 per cento degli investimenti diretti esteri nel Paese passa ancora da Hong Kong, dove si riversano il 65 per cento dei capitali in uscita dalla Cina continentale. Alla borsa locale si negoziano inoltre le azioni del 70 per cento delle società cinesi quotate all’estero e sono scambiate il 60 per cento delle obbligazioni emesse dal Paese oltre confine. Insomma, la linea dura di Pechino non è semplicemente giustificata da motivazioni politiche e dal pericoloso precedente che qualsiasi compromesso potrebbe costituire per altre regioni “separatiste”, come il Tibet, lo Xinjiang uiguro, la Mongolia Interna, Macao e Taiwan. La decisa azione del regime si inserisce invece in un progetto più ampio, avviato diversi anni fa.
Nemmeno la fermezza del governo cinese su Hong Kong sembra poi così recente. In occasione del ventesimo anniversario della riunificazione, celebrato in città nel 2017, il presidente Xi Jinping lanciò infatti un severo monito contro “qualsiasi tentativo di mettere a rischio la sovranità e la sicurezza della Cina” a Hong Kong. Non a caso, nello stesso anno, Pechino annunciò il progetto della Greater Bay Area, volto a integrare Hong Kong e Macao con le città della vicina provincia del Guangdong in una zona economica da oltre 70 milioni di abitanti e dal valore di 1.500 miliardi di dollari, e promosse un accordo commerciale con l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN).
Queste iniziative rientrano nell’obiettivo di integrare la città con il resto del Paese e, attraverso le sue connessioni, di approfondire l’influenza cinese nella regione. Negli ultimi anni, la Cina si è in primis adoperata per collegare sempre di più l’ex colonia al continente, a livello infrastrutturale, economico e commerciale. Ponti, strade, stazioni ferroviarie, linee ad alta velocità, approdi, programmi di integrazione finanziaria, canali privilegiati di investimento in diverse valute ed altri progetti hanno contribuito a connettere sempre più Hong Kong, Macao e altre città vicine, come Guangzhou, Shenzhen, Zhuhai, Zhongshan, Jiangmen, Zhaoqing, Foshan, Dongguan e Huizhou.
Molte di queste aree urbane, interessate dal progetto della Greater Bay Area, furono al centro della prima rivoluzione economica della Cina moderna, quando i capitali di Hong Kong stimolarono la rapida crescita dell’industria manifatturiera nel delta del Fiume delle Perle, soprattutto a Shenzhen, dopo che Deng Xiaoping la rese la prima zona economica speciale della nazione nel 1980. In questo contesto, a seguito della crescita delle aree intorno all’ex colonia, l’iniziativa di Pechino assume la valenza di una vera e propria fase II dell’ascesa, non solo economica, del Paese. Secondo alcuni esperti, il prezzo di questo sforzo sarà la sempre maggiore “diluizione” del ruolo di Hong Kong all’interno di una zona più vasta di cui via via non costituirà più il centro, mantenendo comunque un’importanza fondamentale. L’intero progetto che coinvolge l’ex colonia non assume infatti solo una valenza economica, ma anche strategica.
Basta dare uno sguardo alla cartina geografica per rendersi conto dell’importanza di quest’area nel contesto del Mar Cinese Meridionale, di cui costituisce l’apice settentrionale, in una regione compresa tra il Vietnam a ovest, la Malesia, l’Indonesia e il Brunei a sud e le Filippine e Taiwan a est. Almeno cinque di questi Paesi, insieme alla Cina, rivendicano tratti di mare sovrapposti e vari isolotti in una regione ricca di idrocarburi e gas naturale e attraverso la quale passano migliaia di miliardi di scambi commerciali di rilevanza globale.
Secondo l’Energy Information Administration (EIA) degli Stati Uniti, ogni anno la zona assiste al transito di oltre 3.370 miliardi di dollari di flussi commerciali e di quasi il 30 per cento dei trasporti petroliferi globali, mentre le riserve energetiche locali sono stimate in almeno 11 miliardi di barili di petrolio e 190 mila miliardi di metri cubi di gas naturale. Non a caso, le ambizioni su quest’area hanno provocato varie tensioni tra gli attori della regione e non solo, promuovendo l’aumento delle spese militari locali, soprattutto da parte della Cina, che secondo lo Stockholm International Peace Research Institute ha aumentato il budget per la difesa del 131 per cento in 10 anni.
In poco più di un decennio, secondo le accuse del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la Cina ha intrapreso vari sforzi per dragare e bonificare migliaia di metri quadrati del Mar Cinese Meridionale, schierando sistemi missilistici anti-nave e anti-aereo sulle Isole Spratly e costruendo varie infrastrutture militari su diversi isolotti artificiali. Questo impegno avrebbe aumentato notevolmente la capacità di proiezione strategica della Cina estendendo il raggio operativo delle forze armate del Paese di oltre 1.000 chilometri verso sud. Le ambizioni espansionistiche del Paese nella regione sembrano solo apparentemente slegate dalla situazione in corso a Hong Kong.
La progressiva assertività del Dragone nell’area si accompagna infatti da sempre all’integrazione dei capitali e dei mercati cinesi con quelli dei vari Paesi coinvolti. Nei primi quattro mesi dell’anno, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), che riunisce una decina di Paesi della regione, è diventata ad esempio la destinazione preferita dalle esportazioni della Cina, passando in gran parte dal meridione cinese. L’aumento delle relazioni economiche tra le diverse aree è stato promosso ancora di più da un’intesa internazionale raggiunta tre anni fa, di nuovo a vent’anni dalla riunificazione della città alla madrepatria.
Nel giugno dello scorso anno è entrato in vigore l’accordo di libero scambio tra Cina, ASEAN e Hong Kong che per il momento coinvolge Pechino, l’ex colonia britannica e vari Paesi come Vietnam, Laos, Myanmar, Singapore e Thailandia. Firmato nel novembre del 2017 per aumentare la cooperazione economica, ridurre l’imposizione fiscale e accrescere gli investimenti e l’integrazione tra i diversi mercati della regione, l’accordo attende a breve la ratifica dei restanti Paesi dell’ASEAN, che insieme costituiscono già il secondo maggiore partner commerciale di Hong Kong.
Sebbene la città possa aver “diluito” il proprio peso nel Paese nell’ambito dei progetti di sviluppo di Pechino per il delta del Fiume delle Perle, l’ex colonia britannica resta il fulcro dell’attrazione economica del Sud-est asiatico verso la Cina, che da una parte proietta la propria potenza, anche militare, sul mare e dall’altra attira in senso inverso capitali, imprese e talenti verso il continente.
Tutti questi motivi, di ordine economico, politico e strategico, non “consentono” al governo cinese di rinunciare a un maggior controllo su Hong Kong, che rientra in una più ampia visione dello sviluppo e delle prospettive, anche estere, della Cina. Nella regione, Pechino vede il passato, il presente e soprattutto il futuro del Paese e sembra disposta a pagare anche un costo elevato in termini economici e di reputazione internazionale pur di raggiungere i propri obiettivi.
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