La Cina ha bloccato Clubhouse
Sembrava troppo bello per essere vero. Come in Italia e in altre parti del mondo, anche in Cina Clubhouse, il social delle discussioni audio a inviti, stava spopolando. Tutelati dal fatto che l’app più in voga del momento non tiene traccia delle conversazioni, molti cinesi si sono lanciati nelle “room” per discutere di temi sugli aspetti controversi del Paese di norma oscurati dalla censura, dai rapporti con Taiwan passando per Hong Kong e le sue proteste per la democrazia fino alla persecuzione degli uiguri, la minoranza musulmana che vive nella regione dello Xinjiang. “Un’abbuffata di libertà d’espressione“, è la definizione di Clubhouse per la giornalista americana di origine cinese Melissa Chan. Ma è una libertà che è durata soltanto un mese. L’app è stata infatti bloccata dal Partito di Stato cinese.
Su Twitter diversi utenti, nel pomeriggio di ieri, lunedì 8 febbraio, hanno segnalato l’oscuramento dell’applicazione in varie città della Cina, dove Clubhouse, come in altre parti del mondo, ha avuto un rapido successo nelle ultime settimane. Pur non essendo presente nell‘Apple Store cinese (Clubhouse al momento è disponibile solo per i possessori di iPhone), come molte altre app di sviluppatori occidentali bloccate dal governo cinese (come Facebook e Google), gli utenti nel “Dragone” riuscivano a scaricarla ugualmente facendo in modo di modificare il paese di accesso. Clubhouse inoltre in Cina non necessitava di una rete privata (VPN) per aggirare il Grande Firewall, il sistema normalmente utilizzato nel Paese per impedire ai cittadini cinesi di accedere ai siti non approvati dal governo, a differenza di altri social network occidentali.
“Molti utenti cinesi di Clubhouse sono stati attratti dall’approccio multiculturale e dall’ampia gamma di temi disponibili sulla piattaforma, non solo quelli politici”, ha scritto su Twitter in serata il Global Times, quotidiano filo-governativo. Pechino, ammette la stampa, teme che l’applicazione possa essere utilizzata per diffondere quella che chiama “propaganda anti-Cina”.