In Cina, le autorità hanno intrapreso una campagna di repressione su larga scala e sistematica contro la minoranza musulmana del paese, culminata con l’invio di almeno 1 milione di uiguri in veri e propri campi di internamento.
I fedeli islamici nella regione nord occidentale dello Xinjiang che pregano, digiunano, si fanno crescere la barba o indossando abiti tipici dell’Islam sono incarcerati dalle autorità cinesi e trattati come malati mentali.
Trasferiti in appositi campi di rieducazione senza alcun processo, sono costretti a mangiare carne di maiale, a bere alcool e ad aderire alla propaganda del Partito comunista: nel corso della giornata infatti devono cantare inni, slogan e partecipare a sessioni giornaliere di propaganda comunista.
I detenuti che rifiutano di piegarsi al Partito, inoltre, sono sottoposti a diverse torture che prevedono privazione del sonno, isolamento e violenza fisica.
Il sistema di rieducazione classificava gli internati in tre livelli di sicurezza a cui è associato una diversa durata delle sentenze.
Il primo gruppo è formato principalmente da agricoltori analfabeti la cui colpa è di non sapere il cinese; nel secondo ci sono persone che hanno in casa o sul cellulare catturate materiale religiosi o considerati sovversivi dell’unità nazionale.
Nell’ultimo gruppo ci sono coloro che hanno studiato religione all’estero e che spesso sono condannati a pene detentive da 10 a 15 anni.
La testimonianza
Una delle testimonianze più dettagliate fornite su quanto accade nei campi è quella di Omir Bekali, un uomo di 42 anni originario del Kazakistan, arrestato in Cina, dove si era recato per visitare i suoi parenti, perché appartenente alla minoranza musulmana.
Il giorno dopo essere entrato in territorio cinese, Bekali è stato prelevato da 5 poliziotti armati affermando che contro di lui era stato emanato un mandato di arresto a Karamay, una città petrolifera di frontiera dove aveva vissuto dieci anni prima.
Le forze dell’ordine non hanno permesso a Bekali di mettersi in contatto con l’avvocato, né con i parenti ed è stato tenuto in isolamento per una settimana prima di essere portato nella prigione di Karamay.
Quattro mesi dopo, la polizia ha trasferito nuovamente Bekali in uno dei campi di rieducazione realizzati per i musulmani in Cina.
Lì, l’uomo è stato sottoposto a diversi tipi di torture ogni volta che si rifiutava di obbedire agli ordini che gli venivano impartiti.
“Sono stato costretto a stare al muro per cinque ore. Una settimana dopo, sono stato mandato in isolamento, sono stato privato del cibo per 24 ore”, ha raccontato Bekali, spiegando anche che dopo 20 giorni nel campo stava pensando di suicidarsi.
“La pressione psicologica è enorme, ti costringono a fare autocritica continua, a rinunciare al proprio modo di pensare, alle proprie origini. Continuo a pensare a quanto accaduto ogni notte, fino a quando il sole sorge, non riesco a dormire. Quei terribili ricordi sono sempre con me”.
Nemici dello Stato
Gli uiguri detenuti, secondo quanto riportato da Middle East Eye, sono trattati come “nemici dello stato” a causa della loro identità religiosa: molto spesso sono trattenuti senza accuse e non possono avere contatti con i loro avvocati.
Questa la denuncia degli attivisti dei diritti umani sulle condizioni in cui vive in Cina la minoranza musulmana, che stanno cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale.
Le autorità cinesi hanno iniziato a utilizzare il metodo della “trasformazione attraverso l’educazione” dei musulmani uiguri nella convinzione che nella minoranza si annidino elementi “estremisti” o “separatisti”.
Secondo il governo, centinaia di musulmani si recano in Iraq e in Siria dalla Cina per unirsi allo Stato islamico.
La repressione nei confronti della minoranza è aumentata dal 2017 grazie al piano avviato dal leader del Partito comunista Chen Quanguo nello Xinjiang, secondo quanto riferito dagli esperti.
Nel solo 2017, il 21 per cento degli arresti effettuati in Cina hanno coinvolto gli uiguri, pur rappresentando solo l’1,5 per cento della popolazione.
Il silenzio dei paesi musulmani sulla repressione
Le notizie sulle discriminazione contro la minoranza hanno più volte raggiunto l’opinione pubblica mondiale, ma mentre i media internazionali hanno iniziato iniziato a chiedere spiegazioni sulla vicenda i leader cinesi hanno mantenuto a lungo il silenzio.
A colpire è il fatto che nessuno dei 49 paesi a maggioranza musulmana in tutto il mondo abbia ancora chiesto che sia fatta chiarezza sulla repressione degli uiguri, né ha condannato il governo cinese per l’aumento delle violazioni dei diritti umani nella regione dello Xinjiang.
Solo alcune settimane fa i leader di oltre 40 paesi, tra cui molti con un’alta percentuale di musulmani all’interno della popolazione, si sono recati a Pechino per il Forum sulla cooperazione Cina-Africa.
In quell’occasione, il presidente Xi Jinping ha promesso di investire altri 60 miliardi di dollari nel continente per lo sviluppo e ha promesso di cancellare i debiti di quelle nazioni che non sono in grado di ripagarli, come spiegano su Middle east eye.
Le relazioni commerciali, quindi, sono molto più importanti della repressione attuata in Cina dal governo contro le minoranze musulmane e i leader dell’Africa non sembrano rendersi conto del pericolo dell’espansione cinese nel loro continente.
Paul Kagame, presidente del Ruanda e attuale capo dell’Unione africana, ha infatti definito l’impegno della Cina “profondamente trasformativo”.
La versione del governo cinese
Dopo mesi di accuse, il governatore dello Xinjiang, Shohrat Zakir, ha rilasciato la prima e unica intervista in cui ha descritto quanto succede nei campi di rieducazione in cui la minoranza musulmana è detenuta.
Il funzionario ha descritto i campi come “luoghi di formazione dove i residenti ricevono formazione professionale, legale e linguistica, nonché un’educazione contro l’estremismo”.
“Lo scopo del governo locale è eliminare radicalmente il terrorismo e l’estremismo religioso e le attività terroristiche prima che abbiano luogo”.
Zakir ha anche spiegato che i residenti dello Xinjiang che si trovano in questi “centri” imparano il mandarino e “ad accettare la scienza moderna e migliorare la loro comprensione della storia e della cultura cinesi”.
Lo Xinjiang
La regione è stata spesso usta dal governo cinese come teatro in cui sperimentare nuove modalità e metodi di controllo della popolazione, grazie all’utilizzo di sistemi come quello di riconoscimento facciale installati sugli angoli delle strade nei villaggi della provincia.
Se il trattamento riservato alla minoranza musulmana e in generale alla popolazione della regione non sarà contestata, queste stesse politiche potrebbero essere utilizzate anche in altri Stati desiderosi di avere lo stesso controllo sulla loro popolazione, secondo gli attivisti per i diritti umani.
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